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domenica 6 luglio 2008

Sulla vita solitaria

(da un Testo di Thomas Merton)
L'eremita rimane là per dimostrare, con la sua mancanza di utilità pratica e l'apparente sterilità della sua vocazione, che gli stessi monaci dovrebbero avere scarsa importanza nel mondo, o addirittura nessuna. Sono morti al mondo, non dovrebbero più apparire in esso. E il mondo è morto per loro. Sono pellegrini, testimoni appartati di un altro regno. Questo, naturalmente, è il prezzo che pagano per una compassione universale, per una soli­darietà che tutti raggiunge. Il monaco è capace di compassione nella misura in cui è meno coinvolto, e con minore successo, nel­le cose pratiche, perché lo sforzo di avere successo in una società competitiva non lascia tempo alla compassione.
L'eremita ha un ruolo particolare nel nostro mondo perché non ha un posto specifico. Il monaco non è ancora abbastanza un esule. Ecco perché abbiamo bisogno degli eremiti. Il monaco può essere capito e apprezzato. Non appena si paragona il monastero a una "centrale di preghiera", il mondo è pronto a ricono­scergli, anche se a malincuore, un certo rispetto. Una centrale produce qualcosa. E, così sembra, le preghiere dei monaci pro­ducono una specie di energia spirituale. O, per lo meno, i mona­ci si prendono cura delle proprie necessità e guadagnano un pò di denaro. Sono come una presenza confortante. La presenza dell'eremita, quando la si conosce bene, non è piacevole; distur­ba. Egli non sembra nemmeno buono. Non produce niente.
Una delle critiche più diffuse nei confronti dell'eremita può addirittura essere che perfino nella sua vita di preghiera è meno "produttivo". Verrebbe da pensare che nella sua solitudine egli dovrebbe raggiungere velocemente il livello delle visioni, delle nozze mistiche o comunque di qualcosa di sensazionale. Invece può ben essere che sia più povero del cenobita anche nella sua vita di preghiera. La sua è un esistenza fragile e precaria: ha più preoccupazioni, è più instabile, deve lottare per preservarsi da tutta una serie di fastidi, e spesso ne è preda. La sua povertà è spirituale. Pervade interamente la sua anima e il suo corpo, così che alla fine tutto il suo patrimonio è l'insicurezza. Sperimenta il dolore e l'indigenza spirituale e intellettuale di chi è davvero povero. Questa è esattamente la vocazione eremitica, una voca­zione all'inferiorità a ogni livello, anche quello spirituale. E’ cer­to che vi è in essa un pizzico di follia. Altrimenti non è ciò che dovrebbe essere, una vita di diretta dipendenza da Dio, nell'o­scurità, nell'insicurezza e nella fede pura. La vita dell'eremita è una vita di povertà materiale e fisica senza sostegno visibile.
Ovviamente non bisogna esagerare o essere troppo assoluti in questo. L'assolutizzazione in se stessa può diventare una specie di "fortuna" e "onore". Dobbiamo anche tener presente il fatto che l'uomo medio è incapace di una vita in cui l'austerità sia senza compromesso. Esiste un limite oltre il quale la debolezza umana non può andare e in cui la stessa mitigazione entra come una sottile forma di povertà. Può accadere che, senza colpa, l'eremita si procuri un'ulcera proprio come l'uomo normale. E deve bere grandi quantità di latte e forse anche prendere delle medicine. Questo lo sbarazza definitivamente di ogni speranza di divenire una figura leggendaria. Anche lui si preoccupa. Forse si preoccupa anche più di altri, perché solo nella mente di coloro che non conoscono niente della vita solitaria questa appare co­me una vita senza preoccupazioni.

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