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sabato 3 luglio 2010

L’eremita diocesano, con Gesù nel deserto

PRESENTAZIONE del testo di Filippo Rossi

Il testo che presentiamo ha, nell’intenzione dell’Autore, un fine modesto e preciso: “una condivisione fraterna di qualche pensiero sulla vita eremitica”.

Diremmo che la precisione è mantenuta dall’organizzazione chiara ed esaustiva del lavoro, tesi di baccalaureato in teologia riveduta ai fini della pubblicazione. La modestia è invece contraddetta dall’ampiezza delle tematiche richiamate, la finezza dell’analisi, la buona documentazione sottesa e bibliografica. Infine, non ultima motivazione, dall’amore intenso alla condizione eremitica che pervade tutta la trattazione.

Invito alla lettura non solo per chi aspira nella Chiesa a realizzare questa vocazione oggi in crescita, ma per chiunque desideri accostarsi al mistero di una vicenda umana apparentemente singolare, ma di fatto profondamente, esemplarmente cristiana. E perfino per chi, non credente, vive comunque una ineliminabile ricerca di senso, e può coglierlo in una vita nuda, semplice e ardua, ma gioiosa, incentrata sulla presenza spoglia e gloriosa di Gesù Cristo crocifisso e risorto, capace di mostrare quanto possano bastare al cuore umano la sua Persona e il suo Vangelo

La singolarità del lavoro di Filippo Rossi è il suo riferimento all’eremitismo contemporaneo e al magistero ecclesiale attuale su di esso.

L’eremita diocesano compie infatti “un’analisi della spiritualità dell’eremita diocesano, una forma di vita religiosa oggetto di una costante crescita a partire dal 1983” (p.1), quando la Chiesa ha riconosciuto ufficialmente una vita eremitica in dipendenza dal vescovo.

Oggi gli eremiti, compresi quelli diocesani, sarebbero in Italia 200 e nel mondo 20000.

L’Autore lascia trasparire dal suo accurato studio una buona conoscenza delle fonti dell’eremitismo, dai Detti dei padri del deserto alla Filocalia, per richiamare solo due radici portanti della dimensione monastica ed eremitica.

Essa è tratteggiata nel suo significato, nelle grandi figure dei santi che l’hanno vissuta, negli Ordini religiosi che vi si sono ispirati, nelle diverse forme che lungo i secoli ha assunto nella Chiesa d’oriente e d’occidente. Fino all’eremitismo diocesano, proprio di un battezzato chiamato a questa forma di vita nella sola dipendenza dal vescovo della sua diocesi.

L’altissima vocazione dell’eremita, come quella di ogni battezzato, ma vissuta in condizioni che escludono o almeno limitano le evasioni e facilitano la concentrazione e la dedizione alla preghiera, è biblica e cristocentrica. Ha il suo centro nella Scrittura, letta nell’ambito della Chiesa, della tradizione dei Padri, ma è anche attenta al magistero contemporaneo, all’ascolto sempre nuovo rivolto dalla Chiesa allo Spirito, che fa nuove le cose.

Luogo fondante dell’eremitismo è il deserto, spazio biblico e “condizione esistenziale e interiore”, luogo di intimità con Dio ma anche di lotta, di comunione ineffabile ma di impervia fatica. Invito a ogni uomo al distacco dalle cose, dagli altri, da se stesso per trovare la via nascosta del cuore, l’unica che apre a Dio e ai fratelli, immette nello spazio infinito dell’amore trinitario e in quello senza sponde del rapporto con tutti i viventi..

Nel deserto l’eremita non vive solo, ma con Gesù – il sottotitolo del libro recita Con Gesù nel deserto --, per essere come lui tentato. Una tentazione vissuta, in continua paziente attesa dell’avvento di Cristo in sé, per la purificazione del proprio cuore e per i fratelli, per aprire sé e loro allo Spirito e andare insieme ad essi al Padre.

La vita eremitica, in qualche misura sintesi e culmine della vita cristiana, apre alle gioie indicibili della vita in Cristo, ma passa per la durissima prova del Getsemani, l’esperienza dell’abbandono assoluto da parte di Dio. Perciò rende il cristiano solidale con l’uomo contemporaneo. Egli non solo, come nota Filippo Rossi, sperimenta Dio come “il grande assente”, ma in gran parte della cultura dominante non lo postula neppure come assente, in una totale rimozione delle ragioni del vivere.

Il valore profetico dell’eremitismo è indicato con chiarezza dall’Autore: “E’ la volontà di Dio la bussola dell’eremita, non la ricerca della propria pace e consolazione…L’atto d’amore più sublime della storia, la Redenzione del genere umano, si compie non nella quiete della contemplazione o in un’estasi mistica, ma in una situazione estrema di fatica, dolore, umiliazione, abbandono “(p.34).

L’appartarsi vale nella misura in cui dilata il cuore nella carità. Così la castità non esclude, ma anzi potenzia l’amicizia, la povertà è vigilanza per non pesare sugli altri, l’obbedienza è disponibile alla possibilità del distacco anche dall’eremo.

Filippo Rossi indugia con attenzione su “alcuni aspetti particolari della vita dell’eremita”, primo tra essi la sua attività fondante, la preghiera – liturgica e personale, nutrita dalla parola di Dio, alimentata dalla lettura e dallo studio -- noi diremmo, come dicevano i padri, dalla ruminazione continua della Parola -- che culmina nell’eucaristia, fonte e apice della vita cristiana. Poi la solitudine-comunione. Una solitudine che ama profondamente il mondo, è spalancata a ogni fratello, è tesa al fine ultimo dell’ unione con Cristo, la compassione per ogni vivente. Una solitudine vegliata da Maria, compagna del pellegrinaggio dell’eremita.

L’ascesi, che connota la vocazione eremitica nel combattimento spirituale contro il peccato, è insieme severa ed equilibrata, tesa all’umiltà e alla purezza del cuore, sempre sottoposta alla guida spirituale che accompagna l’eremita, l’aiuta nel discernimento, nel ritmo preghiera--lavoro. Lavoro non solo come penitenza, opera ascetica e via alla carità, ma come condivisione della legge comune a tutti gli uomini.

Ma se “l’eremo, prima che luogo fisico, è una realtà interiore” (p.57), l’opera fondamentale dell’eremita è sempre la preghiera, qualunque sia la modalità della sua vocazione, di eremita laico o di eremita sacerdote. Entrambi sono solitari, entrambi, in modalità convenienti alla loro vocazione, possono essere chiamati, come testimonia la tradizione monastica, all’ascolto e alla guida di fratelli.

L’eremita diocesano esamina a fondo il canone 603, che disciplina la condizione dell’eremita diocesano, indugia sulle diverse modalità di separazione dal mondo di questo fratello / sorella a cui la Chiesa riconosce una missione così alta e specifica nel suo ambito, richiama testi dei papi che ne hanno esaltato il valore.

In un mondo che privilegia l’attivismo fino al rischio di esserne soffocato, corre freneticamente fino a perdere l‘indicazione di una mèta, esalta l’apparire fino a smarrirsi nell’immagine, queste pagine sobrie, piene d’amore ma non retoriche, equilibrate e realistiche, costituiscono un contributo teologico alla conoscenza della vita eremitica. E realizzano appieno il desiderio del loro giovane autore per chi ha avuto il dono di questa vocazione, o serba nel cuore uno spazio che vuole abitato solo da Dio: la gratitudine e la gioia per il dono ricevuto, di cui l’eremita costituisce un segno, ma che ognuno in qualche misura custodisce, a volte senza percepirlo, al fondo della coscienza.

Per passare dalla “regione della dissimilitudine”, che ci trattiene e c’impiglia, al luogo della liberazione: la terra promessa della comunione con Dio nel suo Cristo, della gioia pasquale che non finisce.

Emanuela Ghini

Carmelo “ S. Teresa”
22 /11/ 2009

venerdì 7 maggio 2010

Un eremita in città

10-09-2007 di
Fonte: Città nuova

Mi ero fermato nella cappella del Santissimo. Tra gli altri c'era un uomo sui settant'anni, che, in un mio momento di distrazione, mi incuriosì. Guardava fisso l'ostensorio, poi abbassava la testa e faceva dei lievi cenni di diniego, che sarebbero potuti sembrare tremiti di Parkinson se non fossero stati tutti e solo legati a quei momenti. Ritornai alla mia interrotta adorazione. Quando mi alzai per andarmene il mio sguardo incontrò il suo, per qualche attimo. Fuori della chiesa mi raggiunse, Permette una parola?. Certo. Nel suo sguardo ho visto che lei ama Dio. Ci provo, replicai un po' vergognandomi. Io riconosco chi ama Dio, disse, e da quel momento cominciò uno strano colloquio, che mi permetto di riferire avendo solennemente promesso di non rendere riconoscibili lui e i luoghi. Mario, lo chiamerò, così, è un direttore postale da poco in pensione, e fa l'eremita in città. Io diffido sempre un po' di queste cose, e allora mi sono messo in cauto ascolto. Sembrava autentico. Non si era mai sposato, non sapendo bene perché, finché gli era venuto in mente che forse poteva essere una vocazione. Ma su questo, disse, si era tormentato parecchio, chiedendosi (stavo per chiederglielo io) se vivere da solo in un appartamento minuscolo ma confortevole non poteva infine essere un bell'alibi per non prendersi responsabilità e vivere un quieto vivere. Sì, visitava i malati all'ospedale, portava la comunione come ministro straordinario, ma questo lo assolveva dal non essersi preso altre croci, di quelle pesanti che ti bloccano e non ti lasciano scampo? È intelligente Mario, ha letto che nelle vite di molti santi c'è stato il momento della tentazione più insidiosa, quello di ritirarsi da soli con Dio, stornata da Dio stesso a suon di fatti. E una notte che pregava più intensamente del solito perché aveva tentazioni di ogni genere, da quelle sessuali al timore, crescente con l'età, della solitudine, proprio quando si era sentito un illuso, uno straccio falso, disse, aveva capito che quella era la sua vocazione, perché non c'era niente da divertirsi, ma solo una pace, quasi sempre senza consolazione, più alta di ogni sconquasso. Se ti reggi a un treno, vai dove vuole il treno. Se stai dentro un'auto, pure. Se ti attacchi anche con una mano sola a Dio, ma a lui solo, non sei più sballottato, è tutto il resto intorno a te, che corre smarrito. E quando viene la tentazione di non credere? gli chiesi senza alcun riguardo. Sorrise come un compagno di scuola trionfante che ti ha fatto goal nel campetto parrocchiale, poi serio spiegò: Ho imparato a spese di ogni mio nervo che c'è qualcosa di molto più grande della fede, che può oscurarsi del tutto, ed è l'amore, anzi, sai che ti dico? Allora la fede esce da sé stessa e diventa amore. A quel punto volle insistentemente che vedessi il suo eremo. Ma che fai, ora che sei in pensione?, gli chiesi con la stessa precedente mancanza di riguardo. Oltre le cose che ti ho detto, la preghiera: è inesauribile . I suoi meno di quaranta metri quadrati, devo dire, mi hanno colpito: cucinino, salottino, camera da letto fratesca, col letto lindo, povero, essenziale come un letto di morte. Un tavolino, una sedia, un lume, una piccola radio, uno scaffaletto di libri, forse duecento, in cui feci in tempo a riconoscere, oltre la bibbia in diverse edizioni, la Liturgia delle ore, alcune vite di santi, le edizioni carmelitane delle opere di santa Teresa, san Giovanni della Croce e santa Teresina, di Lisieux. E I fratelli Karamazov. Perché I fratelli Karamazov?. È la bibbia dell'uomo moderno, di tutte le sue debolezze, mi serve a tenere i piedi per terra. Dalla finestra della camera una lista di cielo slavato. Mi vennero i brividi, a pensarlo lì solo. Solo?, mi lesse nel pensiero. Siamo almeno in sei: La Trinità, la Madonna, il mio angelo, io il poveretto. E poi ci pensi, la Chiesa? Noi ci riferiamo sempre a questa qui visibile, di gente che nasce e muore continuamente. Ma questa, importantissima per noi, è il meno!, si infervorava. I tantissimi del purgatorio, gli innumerevoli del paradiso, altro che soli. E poi ancora - continuò - io compro il giornale ogni mattina, non per curiosità. C'è da, pregare tutto il giorno e non si arriva mai. Ecco perché non ho la televisione: non ho tempo, ho già tutti i dolori che mi vengono dal giornale e dalla radio, che parlano anche della televisione. Mario, perché mi hai fatto venire qui, e non vuoi che dica niente a nessuno?. Perché chi deve venire alla fine viene, lo porta Dio. Ti ho fatto venire perché ho visto che ami Dio, e con chi ama Dio si condivide tutto. Mario.... Adesso devi andare, perché io devo andare in ospedale ad aiutare a mangiare persone che non ce la fanno. Ciao. Ciao. Se si vive sempre in punto di morte, tutto va a posto.