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giovedì 3 luglio 2008

Eremiti oggi., il fascino imperituro del "deserto"

di Enzo Bianchi (Avvenire 9/03/08)
Fin dalle origini della vita monastica l’"eremitismo" è letto e interpretato in modo "ambivalente": da un lato lo si considera la forma "eccellente" di vita monastica, adatta a pochi, d’altro lato se ne scorgono i limiti nell’annessa impossibilità a servire i fratelli nel quotidiano e nel rischio di scambiare la volontà propria con quella del Signore.
Proprio per questo la tradizione monastica d’occidente come d’oriente – dalla
Regola di Benedetto fino alla "prassi" contemporanea nel deserto egiziano – ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita "eremitica" solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi "auspicabile" che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita "cenobitica" – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una "regola" di vita. Così il "cenobio" nasce spesso da un eremita e successivamente può favorire la nascita di nuovi eremiti, non senza aver prima generato "cenobiti": appare allora tutta la fecondità di questa tensione "dialettica", a volte vissuta o interpretata solo in termini di rivalità o "preminenza". Ma come leggere allora l’attuale "rifiorire" della vita eremitica, proprio in una stagione in cui il monachesimo "cenobitico" conosce una fase di "riflusso" se non di vera e propria crisi? Non c’è il rischio che, in una cultura che subisce la tentazione della religione "fai-da-te", anche la vita di celibato per il Regno subisca l’attrazione verso una forma "plasmata" da ciascuno a modo suo?
Indubbiamente il pericolo è presente, eppure la Chiesa ha sempre conosciuto questa feconda "dialettica" tra "eremo" e "cenobio", e oggi accompagna con vigilanza amorosa il "riemergere", anche in occidente e anche tra le donne, della vita eremitica, che l’oriente cristiano ha sempre continuato ad avere, soprattutto in ambito maschile: pur fortemente minoritaria, com’è naturale che sia, e a volte "discreditata" dall’eccentricità di alcuni suoi esponenti, la vita eremitica ha tuttavia fatto la sua "ricomparsa" sotto diverse forme: da quella più classica del solitario che si ritira in un luogo appartato, all’"eremitismo urbano", vissuto lavorando e pregando nel deserto delle nostre anonime città; dalla riedizione moderna delle "colonie" di eremiti presenti in un’area "limitrofa", alla "reinterpretazione" del carisma "certosino" di profonda solitudine vissuta in un spazio fisico e strutturale fortemente comunitario. Il "deserto" si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova e la privazione per saggiare cosa si ritiene davvero "essenziale", fare silenzio per imparare l’ascolto, custodire la solitudine per saper leggere nel proprio cuore e in quello altrui, sono tutti elementi che alcuni individui – in ogni tempo e in ogni luogo – colgono come propria verità fino ad assumerli come totalità della propria condizione e come segno capace di destare maggiore consapevolezza in quanti a loro si accostano, direttamente o attraverso i loro scritti e le loro parole tramandate.

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