(Fonte: www.auraweb.it)
Blog dedicato ai nuovi eremiti, ai monaci metropolitani e ai contemplativi. Articoli, recensioni, esperienze, nuove comunità e altro ancora. Il blog vuole essere un punto di incontro virtuale per quei laici che vivono esperienze di vita contemplativa, eremitica, semieremitica e per chi vive seguendo i principi del monachesimo interiorizzato.
giovedì 24 luglio 2008
"Erba della mia erba", incontro con Adriana Zarri
(Fonte: www.auraweb.it)
L’eremita della porta accanto. Arrivano gli anacoreti del Medioevo prossimo venturo
(Fonte: www.auraweb.it)
Assetati d'infinito
In altri termini, scrive Cardini, quel che il papa sembra riproporre è una rinnovata attenzione a un genere di vita che potremmo definire di tipo eremitico, sia pur senza formalizzazioni disciplinari in tal senso.
L’eremitismo (una parola derivata dal greco eremos, «solitario») è per forza di cose strettamente collegato, sul piano storico ed ecclesiale, al monachesimo (dal greco monos, «uno», e quindi «solo»). Ma all’esperienza propriamente anacoretica, propria dei monaci eremiti – e che trovava riscontro in tradizioni anche ebraiche o proprie di alcune religioni asiatiche, soprattutto il buddhismo – la Chiesa latina seppe accompagnare quella propriamente cenobitica, da condursi cioè in comunità; e una specifica soluzione, quella adottata dai monaci greci e orientali e ripresa nel mondo latino da camaldolesi e certosini, consisté nel riunire in un comune recinto monastico (quella che nel mondo ortodosso si chiama la lavra) una serie di abitacoli nei quali il monaco poteva vivere un’ordinaria esperienze eremitica salvo periodicamente riunirsi con i confratelli, per il servizio divino, per i pasti o per specifiche ricorrenze.
Non pare tuttavia che l’esperienza eremitica sia, al momento attuale, tra quelle privilegiate dalla Chiesa cattolica, che pure la mantiene e la riverisce. Il nostro mondo occidentale è cresciuto su due parametri in apparenza contraddittori, ma la miscela dei quali si è rivelata molto pericolosa: da una parte, evidentemente, la tendenza alla fruizione dei beni materiali, che non dispone alla solitudine; dall’altra però il culto ipertrofico del proprio Ego, l’individualismo che può condurre anche a facili soluzioni «pseudoanacoretiche», alla solitudine come scelta eroica, come indifferenza sprezzante nei confronti del prossimo, come espressione di un complesso di superiorità, come negazione dell’esercizio della carità.
Nel mondo postmoderno, le tentazioni dello pseudospiritualismo – ch’è in realtà un duro materialismo – sono molto comuni e insidiose: tanto più tali in quanto, esteriormente, possono presentarsi in forme analoghe all’esperienza spirituale autentica. Ne è esempio proprio l’aspirazione alla vita in contatto con la montagna. In moltissime religioni esistono «Montagne Sacre»: l’ascensione e la residenza in luoghi alti, «più vicini a Dio» come si usa dire, sono espressioni di spiritualità molto tipica di vari culti. Il cristianesimo ha privilegiato l’ascensione e la sosta sulle vette, come splendidamente recita una grande pagina di sant’Agostino ispirata sia ai profeti d’Israele, sia ai poeti antichi. Il Petrarca se n’è ricordato nella lettera dov’egli descrive una sua ascensione al Mont Ventoux, nella Francia meridionale, e dove non a caso gli sono conforto le Confessioni di Agostino. Ma attenzione: pensiamo a Goethe, pensiamo ad Hölderlin. La loro aspirazione all’ascesa e alla «purificazione», che pur si è tradotta in versi tra i più sublimi della lirica europea e mondiale, reca in sé l’impronta e l’aspirazione non sovrumana bensì, diciamo così, «superuomistica» (brutto aggettivo, usato qui comunque per ricondurci al pensiero del Nietzsche): che non ha nulla a che vedere con l’ascesi per quanto apparentemente possa somigliarle, e che è anzi la negazione dell’aspirazione a unirsi con Dio e ad annullarsi in lui. llo stesso modo, forme di disciplina fisica, di autocontrollo, di privazione (per esempio riguardo ai cibi e alle bevande) possono racchiudere analogo rischio ed essere tese non alla ricerca di Dio, non al sacrificio in Lui e per Lui, bensì all’affermazione d’una Volontà di Potenza che s’interiorizza rivolgendosi in e su se stessa ma che, proprio per questo, è profondamente anticristiana (non a caso si tratta di una somma d’istanze di «controllo di sé» e di «sublimazione del Sé» d’origine romantica che si accompagnarono anche all’infatuazione per religioni come il buddhismo o il taoismo e che furono in qualche misura riprese, e ulteriormente distorte, dall’esperienza nazista).
Redi in te ipsum: in interiore homine habitat Veritas. Il magistero di Agostino resta intatto: ma quel che noi occidentali non sappiamo più fare è ritrovare la strada per addentrarci sul serio in noi stessi, in un modo che non sia solo quello della ricerca del nostro Io. Per questo il papa insiste tanto sulla liturgia, sulla capacità di saper pregare e sulle tecniche della preghiera, che non sono affatto vuote formalità ma che costituiscono la via regia per il recupero dei valori sostanziali.
Porro unum est perfectum. Lo ricorda Gesù a Marta che si affatica correndo e facendo tutto il necessario per servirLo: ma dimenticando che il primo servizio da renderGli è quello dell’ascolto della Parola: ed è infatti Maria che «ha scelto la parte migliore». Ma l’Occidente, tutto conquistato dallo spirito di Marta, non ha mai capito a dovere questa lezione.
Tornar a saper pregare significa affrontare di nuovo quel grande dramma dell’Occidente che è il «Fattore D». Infatti la nostra società, progressivamente accettando tra XVI e XVIII secolo l’esperienza del vivere etsi Deus non daretur, ha fatto cadere la D iniziale dalla parola «Dio»: ed è finita con l’adorare quel che restava, l’«Io». L’eremitismo, riproposto oggi, può sul serio ricondurre sulla buona strada. Ma è un’esperienza alta, profonda, intensa, difficile da percorrere correttamente senza adeguata preparazione. Il frastuono del mondo moderno ci ha disabituati al silenzio: un repentino ritorno ad esso rischia di gettarci nel disorientamento del Nulla, quindi nella falsa meditazione.
Il pericolo non è remoto. L’età postmoderna segnata dalla pseudospiritualità che le è propria, quella New Age, si è annunziata fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso con i culti e le tecniche mistiche dell’Età dell’Acquario, quelle che specie in California hanno riempito i deserti di ogni sorta di eremi: quelli cristiani, quelli buddhisti specie zen, quelli esoterico-iniziatico-sincretistici ispirati a occultisti come Edgar Cayce. Oggi, le nostre città pullulano di negozi scintillanti e profumati nei quali si vendono essenze e profumi, si ascoltano i suoni dell’acqua che cade sulle rocce e del vento che fischia tra i rami, ci si abbandona alla sensualità ipermaterialistica della natura in quanto tale e delle sensazioni di pacificazione interiore, si ricerca la «pace con noi stessi» e l’equilibrio del quale la salute fisica sarebbe al tempo stesso il segno e il premio. Può sembrar misticismo molto prossimo a quello cristiano: e ne è il peggior tradimento, la più infame caricatura.
L’esperienza mistica non può pertanto che affrontarsi in spirito di profonda disciplina e sotto al guida sapiente della Chiesa. Le corse in avanti e le «cadute in alto» sono solo illusioni. Alla nostra cultura serve una mistica fondata piuttosto, secondo quella che del resto è la tradizione più autentica della Chiesa romana, sull’esperienza comunitaria. Per chi desideri tentar l’esperienza della perfezione eremitica, le strade istituzionali proposte dalla Chiesa sono molte. Ma gli Assetati d’Infinito debbono sempre ricordare che il Vero Monte Athos sta dentro ciascuno di noi: e che per ascenderlo non c’è bisogno di mettersi in viaggio. La solitudine, quella vera che garantisce la libertà, non è il vuoto attorno a noi: è la nostra interiorità ripiena di Dio. Oggi i veri eremiti stanno in mezzo alla gente, nel folto della calca dei bisognosi. Sono coloro che, come Francesco d’Assisi e Teresa di Calcutta, avvertono il profumo di Dio nelle piaghe della miseria e del dolore. Chi cerca Dio nel silenzio degli eremi incontaminati, delle cime immacolate e dei mari azzurri, se non dispone della preparazione adeguata finisce di solito con incontrar solo la superbia del suo Io.
Fonte: www.toscanaoggi.it
SUOR HEIDI L'EREMITA
venerdì 18 luglio 2008
Gli eremiti nel Codice di Diritto Canonico
Questa dipendenza è una obbedienza. Impedisce che l'eremita diventi un girovago. C'è tuttavia una difficoltà a realizzare un tale impegno. Il Vescovo comprenderà ciò che è, come vita consacrata, una vita eremitica? Se già molti religiosi si lamentano per la mancanza di comprensione della loro vita da parte delle autorità diocesane e della difficoltà a vivere il loro proprio carisma, non si può negare che un eremita preferisca non prendere questi impegni e vivere in fedeltà alla sua vocazione questo genere di vita consacrata. Tuttavia, in questo caso, sarà utile e perfino necessario dipendere da un prete - spesso il confessore dell'eremita - informato delle esigenze di un tal genere di vita. Ma questi non è sempre pienamente informato delle esigenze reali di questa vocazione, né dei progressi possibili in questa vita di silenzio e di solitudine. Il progetto del 1977, a questo riguardo, era piú ampio e piú prudente.
L'impegno dell'eremita poteva essere preso in dipendenza da un superiore religioso competente. Questo superiore può essere, se l'eremita è religioso, il suo proprio superiore. Poteva essere anche un superiore religioso da cui dipende un terz'ordine secolare (4). Il testo del c. 92, par. 2 del progetto del 1977 sembra ammettere questa soluzione. Un fatto è certo: un fedele cristiano può essere eremita, se si conforma alle esigenze spirituali ed esterne che pone oggi il c. 603, par. 1. Ciò esige: una separazione piú rigorosa dal mondo, il silenzio della solitudine, una preghiera e una penitenza continue. Una tale vita consacrata si vive per la lode di Dio e per la salvezza del mondo. Quest'ultimo elemento va sottolineato perché mette in evidenza la dimensione apostolica universale di questo dono a Dio e alle anime che suppone questo impegno (5). Essere eremita nella Chiesa, secondo il c. 603, par. 1, è un tipo di vita ecclesiale; gli impegni presi non sono piú semplicemente privati; se sono presi davanti al Vescovo diocesano, questo carattere ecclesiale è rafforzato.
Attenendosi alla normativa del c. 603, par. 2, un religioso, anche monaco, non sarà riconosciuto canonicamente in modo pieno come eremita senza questa professione di vita evangelica fatta nelle mani del Vescovo della diocesi. Le Costituzioni degli Istituti monastici possono tuttavia prevedere un tale impegno come conseguenza di una professione fatta in un Istituto di vita monastica. In questo caso, queste Costituzioni dovranno essere ben redatte e approvate dalla Santa Sede. Il monaco potrebbe essere eremita sulla proprietà del monastero e, avvertendo l'Ordinario del luogo, al di fuori del territorio del suo monastero, in vista di una piú grande solitudine. Come si vede, il fatto di considerare l'eremita nel Codice è un progresso. Il c. 603 non sopprime tutte le difficoltà. Numerose questioni restano aperte. La pratica spesso risolve meglio certi problemi rispetto alla loro discussione teorica. Notiamo, infine, che un eremita che non è religioso, non diventa «religioso» per il fatto della professione che emette nelle mani del Vescovo; questo contrariamente a quanto considerava il c. 92, par. 2 del progetto del 1977 (6).
lunedì 14 luglio 2008
Dal Santuario diocesano di N.S. di Lourdes
domenica 6 luglio 2008
Sulla vita solitaria
L'eremita rimane là per dimostrare, con la sua mancanza di utilità pratica e l'apparente sterilità della sua vocazione, che gli stessi monaci dovrebbero avere scarsa importanza nel mondo, o addirittura nessuna. Sono morti al mondo, non dovrebbero più apparire in esso. E il mondo è morto per loro. Sono pellegrini, testimoni appartati di un altro regno. Questo, naturalmente, è il prezzo che pagano per una compassione universale, per una solidarietà che tutti raggiunge. Il monaco è capace di compassione nella misura in cui è meno coinvolto, e con minore successo, nelle cose pratiche, perché lo sforzo di avere successo in una società competitiva non lascia tempo alla compassione.
L'eremita ha un ruolo particolare nel nostro mondo perché non ha un posto specifico. Il monaco non è ancora abbastanza un esule. Ecco perché abbiamo bisogno degli eremiti. Il monaco può essere capito e apprezzato. Non appena si paragona il monastero a una "centrale di preghiera", il mondo è pronto a riconoscergli, anche se a malincuore, un certo rispetto. Una centrale produce qualcosa. E, così sembra, le preghiere dei monaci producono una specie di energia spirituale. O, per lo meno, i monaci si prendono cura delle proprie necessità e guadagnano un pò di denaro. Sono come una presenza confortante. La presenza dell'eremita, quando la si conosce bene, non è piacevole; disturba. Egli non sembra nemmeno buono. Non produce niente.
Una delle critiche più diffuse nei confronti dell'eremita può addirittura essere che perfino nella sua vita di preghiera è meno "produttivo". Verrebbe da pensare che nella sua solitudine egli dovrebbe raggiungere velocemente il livello delle visioni, delle nozze mistiche o comunque di qualcosa di sensazionale. Invece può ben essere che sia più povero del cenobita anche nella sua vita di preghiera. La sua è un esistenza fragile e precaria: ha più preoccupazioni, è più instabile, deve lottare per preservarsi da tutta una serie di fastidi, e spesso ne è preda. La sua povertà è spirituale. Pervade interamente la sua anima e il suo corpo, così che alla fine tutto il suo patrimonio è l'insicurezza. Sperimenta il dolore e l'indigenza spirituale e intellettuale di chi è davvero povero. Questa è esattamente la vocazione eremitica, una vocazione all'inferiorità a ogni livello, anche quello spirituale. E’ certo che vi è in essa un pizzico di follia. Altrimenti non è ciò che dovrebbe essere, una vita di diretta dipendenza da Dio, nell'oscurità, nell'insicurezza e nella fede pura. La vita dell'eremita è una vita di povertà materiale e fisica senza sostegno visibile.
Ovviamente non bisogna esagerare o essere troppo assoluti in questo. L'assolutizzazione in se stessa può diventare una specie di "fortuna" e "onore". Dobbiamo anche tener presente il fatto che l'uomo medio è incapace di una vita in cui l'austerità sia senza compromesso. Esiste un limite oltre il quale la debolezza umana non può andare e in cui la stessa mitigazione entra come una sottile forma di povertà. Può accadere che, senza colpa, l'eremita si procuri un'ulcera proprio come l'uomo normale. E deve bere grandi quantità di latte e forse anche prendere delle medicine. Questo lo sbarazza definitivamente di ogni speranza di divenire una figura leggendaria. Anche lui si preoccupa. Forse si preoccupa anche più di altri, perché solo nella mente di coloro che non conoscono niente della vita solitaria questa appare come una vita senza preoccupazioni.
Eremiti metropolitani
Eremiti oggi
Eremiti, contestatori dell'anima
Quelli «a tempo pieno» sono da 100 a 200, più altrettanti novizi, ma la loro vocazione risulta in crescita: i monaci metropolitani sarebbero infatti 10 volte di più ed esistono persino gli anacoreti «a intermittenza» che praticano la fuga mundi tra ferie e week end Un sociologo li ha fatti parlare
Di Roberto Beretta
Le donne sembrano appena più rappresentate degli uomini, mentre la provenienza geografica dei candidati, se non sempre è urbana, non è quasi mai dalla provincia più profonda; con preferenza per Lombardia, Veneto e le aree intorno a Bologna e a Roma, più alcuni stranieri. «A rischio di sembrare caricaturale - annota Turina - mi permetto di affermare che gli eremiti sono gente di pianura», anche se poi spesso salgono sui monti. Il luogo di destinazione - in generale appunto piccoli paesi o siti di montagna (ma solo in 4 casi su 37 non esiste una carrozzabile per raggiungerli) - viene scelto in base alla presenza di «edifici abbandonati da adibire ad eremi» e anche alla disponibilità dei vescovi ad accogliere esperienze non sempre istituzionali. Infatti, se la maggioranza degli eremiti è consacrata (esiste per loro un'apposita norma del Diritto canonico, al numero 603), molti altri si legano solo con voti privati. Di solito le diocesi ospitanti od altri enti ecclesiastici forniscono pure l'abitazione, un appartamento o una canonica disabitata, e spesso i monaci ricambiano occupandosi della custodia e dell'apertura del santuario annesso; solo alcuni invece hanno un eremo personale, magari ristrutturato con le loro stesse mani. Un dato interessante (anche se volutamente non sviluppato nell'indagine) è il fenomeno di quelli che Turina definisce «eremiti a intermittenza»: persone cioè che stanno ancora testando la vocazione alla vita solitaria, magari dedicandovi le ferie o i week-end, oppure che non po ssono ancora permettersi di abbandonare l'attività lavorativa e aspettano magari la pensione (l'eremita-tipo si mantiene con piccoli lavori, in generale artigianato oppure attività redazionali). Fors'anche per questo, al momento i solitari "a vita" provengono «quasi sempre» da precedenti esperienze di vita consacrata: sui 35 intervistati da Turina, solo 5 hanno davvero vissuto da secolari; tutti gli altri sono stati parroci, missionari o comunque religiosi/e. Spesso si tratta di laureati (architetti, medici, un regista, uno scrittore, parecchi insegnanti), tanto da far pensare a persone di buona cultura e con tendenze artistiche, in genere provenienti «da impieghi nel terziario e nel sociale, cioè da quelle "nuove professioni" che richiedono buone capacità relazionali» e competenze aggiornate. E allora, perché lasciano il mondo? Per delusione o stanchezza? Turina osserva che indubbiamente tra gli eremiti di provenienza clericale si nota «un percorso di parziale affrancamento dalle strutture ecclesiastiche». Non sono cioè laici in cerca di una consacrazione, quanto piuttosto religiosi che soffrono di scarsa libertà nella Chiesa. C'è anche chi è passato da vari ordini o congregazioni, prima di orientarsi verso la solitudine, oppure ha vissuto parecchi trasferimenti o ancora ha già avuto diversi periodi sabbatici fuori dal convento: personalità inquiete o "in ricerca", insomma. Ma fors'anche - nota lo studioso - vicine all'idea di flessibilità o al desiderio di farsi una "seconda vita" ormai affermato anche in ambito laico. Si possono distinguere infatti tra gli eremiti «fughe di rinuncia» e altre «di ricostruzione», o meglio ancora i due elementi misti nella scelta della medesima persona; resta comunque nella vita dei solitari un aspetto di «protesta implicita», sia contro l'attivismo ecclesiale sia verso la società.
Così come - d'altro canto - sussiste nella gerarchia una certa difficoltà a comprendere una vocazione religiosa nella quale non sia contemplato il mi nistero attivo. Anche se poi quasi tutti gli eremiti praticano l'ospitalità e sono disponibili al dialogo: spesso con altre persone «marginali» come loro, coppie in crisi, giovani un po' sbandati, cristiani non praticanti nei cui confronti i moderni anacoreti svolgono una sorta di direzione spirituale, chi è prete magari anche la confessione. Perché se manca una rete di collegamento tra gli eremiti (in media ognuno ha contatti informali e molto sporadici con non più di 3 o 4 «colleghi»), però tra loro «sono rarissimi i casi di persone che rifiutano ogni contatto con gli altri». Ovviamente la preghiera è l'attività anche «sociale» prevalente; tutti raccontano delle numerose richieste di intercessione ricevute, uno rivela di aver collocato nel tabernacolo della sua piccola cappella un quaderno su cui annota i nomi di chi gli ha chiesto aiuto. Episodi che inducono il sociologo a propendere per la modernità dell'eremitismo: «Nonostante possa apparire come un fossile riesumato, esso è una vocazione ben intonata al mondo attuale e capace, in futuro, di notevole sviluppo in direzione di un "cattolicesimo d'Intensità"», destinato ad affiancare la pastorale «di massa». Insomma, ricominciare da uno.
Avvenire 28-5-2006
giovedì 3 luglio 2008
Gli eremiti con San Francesco
ma la intuizione era già germinata nella vita di Viviana Maria Rispoli che viveva fin dal 1996 in una canonica a Monterenzio e contemporaneamente nella mente di Don Augusto, che era vicario parrocchiale a Bologna, senza che si conoscessero.
Eremiti oggi., il fascino imperituro del "deserto"
Proprio per questo la tradizione monastica d’occidente come d’oriente – dalla Regola di Benedetto fino alla "prassi" contemporanea nel deserto egiziano – ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita "eremitica" solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi "auspicabile" che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita "cenobitica" – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una "regola" di vita. Così il "cenobio" nasce spesso da un eremita e successivamente può favorire la nascita di nuovi eremiti, non senza aver prima generato "cenobiti": appare allora tutta la fecondità di questa tensione "dialettica", a volte vissuta o interpretata solo in termini di rivalità o "preminenza". Ma come leggere allora l’attuale "rifiorire" della vita eremitica, proprio in una stagione in cui il monachesimo "cenobitico" conosce una fase di "riflusso" se non di vera e propria crisi? Non c’è il rischio che, in una cultura che subisce la tentazione della religione "fai-da-te", anche la vita di celibato per il Regno subisca l’attrazione verso una forma "plasmata" da ciascuno a modo suo?
Indubbiamente il pericolo è presente, eppure la Chiesa ha sempre conosciuto questa feconda "dialettica" tra "eremo" e "cenobio", e oggi accompagna con vigilanza amorosa il "riemergere", anche in occidente e anche tra le donne, della vita eremitica, che l’oriente cristiano ha sempre continuato ad avere, soprattutto in ambito maschile: pur fortemente minoritaria, com’è naturale che sia, e a volte "discreditata" dall’eccentricità di alcuni suoi esponenti, la vita eremitica ha tuttavia fatto la sua "ricomparsa" sotto diverse forme: da quella più classica del solitario che si ritira in un luogo appartato, all’"eremitismo urbano", vissuto lavorando e pregando nel deserto delle nostre anonime città; dalla riedizione moderna delle "colonie" di eremiti presenti in un’area "limitrofa", alla "reinterpretazione" del carisma "certosino" di profonda solitudine vissuta in un spazio fisico e strutturale fortemente comunitario. Il "deserto" si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova e la privazione per saggiare cosa si ritiene davvero "essenziale", fare silenzio per imparare l’ascolto, custodire la solitudine per saper leggere nel proprio cuore e in quello altrui, sono tutti elementi che alcuni individui – in ogni tempo e in ogni luogo – colgono come propria verità fino ad assumerli come totalità della propria condizione e come segno capace di destare maggiore consapevolezza in quanti a loro si accostano, direttamente o attraverso i loro scritti e le loro parole tramandate.