Uno di questi eremiti, come si è detto, è Adriana Zarri che nel libro Erba della mia erba, edito dalla Cittadella, racconta la sua esperienza da una vecchia cascina del Canavese, diocesi di Ivrea. Ma l'indirizzo è riservato perché l'eremita non vuole essere invasa da visitatori e da curiosi: vive in solitudine, in preghiera o con alcuni amici che la incontrano ogni tanto, per condividere con lei convivialità e pensieri.Non è necessario, lei dice, vivere separati per esser cristiani. Ma per lei questa scelta si è quasi imposta. Teologa non convenzionale, ha sempre fatto della libertà il centro della sua esistenza, della sua fede. “Fede e vita, in fondo, sono la stessa cosa”, ci spiega Adriana Zarri. Nata a S. Lazzaro di Savena nel 1919. Teologa, saggista, ha scritto su diverse riviste, tra cui "Concilium", "Servitium", "Rocca", "Avvenimenti" con una rubrica anche su “Il Manifesto”. Opere di Adriana Zarri sono, oltre a Erba della mia erba, Nostro Signore del deserto, edite entrambe dalla Cittadella di Assisi; di altri editori sono: Dodici lune, Il figlio perduto, Quaestio 98, E’ più facile che un cammello… ed altre ancora.
- Perché gli eremiti si isolano?
Quella dell’eremita è solitudine, non isolamento. E il silenzio contemplativo è denso di parole e di presenze. L’eremita è un uomo tra gli uomini e la solitudine consente un emergere tutto particolare del male del mondo che, in prospettiva, può venire analizzato con maggiore lucidità e combattuto con una contestazione interiore. La preghiera è la contestazione più profonda di questo mondo utilitario in quanto mette in crisi il modello antropoculturale che lo esprime.
- Ma restando appartati così a lungo non si diventa degli orsi o dei misantropi?
In ciascuno di noi c’è una valenza monastica. L’eremita è chi fa emergere questa valenza sulle altre componenti. Un eremo non è un guscio di lumaca in cui ci si rinchiude, ma è solo la scelta di vivere la fraternità in solitudine. L’isolamento è un tagliarsi fuori, la solitudine è un vivere dentro. L’isolamento è una solitudine vuota, invece la solitudine è piena, cordiale, calda, percorsa da voci e animata da presenze. Questa solitudine è la forma eremitica dell’incontro. E il calore umano si ravviva continuamente.
- A cosa serve pregare così intensamente?
A chi ci chiede a “cosa serve” la preghiera, bisogna dire scandalosamente che non serve a nulla, come non serve a nulla l’amore, l’arte, la bellezza. Nell’accezione consumistica la preghiera non serve; è un bel mazzo di fiori che mettiamo sul tavolo. Potremmo farne a meno, si mangia lo stesso. Però non si pranza, non si cena. Neanche sorridere serve. La bocca si apre utilmente per mangiare e per comandare; il sorriso è un di più.Come si divena eremiti?E’ una scelta radicale, come quella degli autentici clochard di una volta. Ma a differenza di tutte le asocialità, quella dell’eremita è una forma totalmente impegnata. Un ritiro da tutto per incontrare se stessi e per essere ancor più d’aiuto a questa umanità. L’eremita lo troviamo in tutte le religioni, lo incontriamo nel santone indiano che sta nelle grotte sull’Himalaya o nel monaco esicasta del Monte Athos.Nel nostro Occidente il movimento eremitico comincia prima ancora di Costantino con la fuga nel deserto o sulle montagne di solitari in lotta con leoni e serpenti, ed anche con diavoli tentatori. Ma quando la fama dei loro digiuni, delle preghiere incessanti, del silenzio ininterrotto attira discepoli e inquietudini esistenziali, l’eremitaggio si interrompe per trasformarsi in comunità. L’eremo diventa convento. E’ stato così anche per l’eremita Benedetto da Norcia, costretto dalla sua stessa fama di santità a improvvisarsi maestro di novizi, e a passare da una solitudine senza gerarchie all’ora et labora di un cenobio.
- Ha dei discepoli, Adriana Zarri?
Me ne guardo bene. Non ho la vocazione della badessa. Ho invece molti amici che di tanto in tanto mi vengono a trovare. E tanti che mi seguono attraverso i miei libri ed articoli. Ma non li considero discepoli, bensì amici con i quali condivido il messaggio cristiano.
- Perchè si diventa eremiti?
Stiamo parlando dell’eremita per vocazione, non di quello per forza come può essere il vecchio solo e abbandonato o il misantropo avaro. E dell’eremita a tempo pieno, non dell’eremita part time, né di quello della domenica. Difficile catalogarli proprio per la loro natura nascosta, L’eremita di cui parliamo non ha niente delle “anime inquiete” che partono alla ricerca dei paradisi lontani o di quelle che fuggono dal proprio passato.Non sono gli artisti alla Gaughin o alla Conte di Montecristo dei racconti ottocenteschi. Qui non c’è l’insofferenza per la banalità della vita, né lo spirito di avventura. Ma una vocazione profonda, che avviene in età adulta, tra i cinquanta e i sessanta anni, quando parte delle tentazioni sono già sotto controllo. E’ ben noto un antico proverbio: «A giovane eremita, vecchio diavolo». Anche se le prove non mancano, a cominciare dalla tentazione di “essere attaccati alla propria ciotola” come dice lo zen; ogni attaccamento è il nemico da combattere.La solitudine e il silenzio sono i soli confratelli con cui convivere, ma questo isolamento è solo apparente perché non c’è disimpegno, dismissione. La nuova fioritura di vocazioni eremitiche avviene per reazione all’eccesso di impegno nel mondo da parte delle organizzazioni religiose e dalla riscoperta della forza della preghiera e della gioia del silenzio.Carlo Carretto era entrato nei Piccoli Fratelli di Gesù ed era andato eremita nel Deserto dopo essere stato per tanti anni il presidente nazionale dell’Azione Cattolica. Molti preti, frati, suore giungono alla vita eremitica dopo anni in comunità tradizionali. Come père Jean Déchanet, lo yogi cristiano che ha portato in occidente l’esperienza di un eremitaggio interiore attingendola dall’oriente.Quanto a lui, ha risposto a una chiamata che gli ha fatto capire sino in fondo che solo chi getta via la sua vita la salva; e che il modo più efficace di amare e di aiutare è seppellirsi nell’anonimato, nel silenzio, nella impotenza, credendo sino in fondo ai misteriosi legami della «comunione dei santi». L’eremita. Un credente che, invece dell’attivismo solo apparentemente costruttivo, ha scelto di praticare la forma più alta di carità, nella prospettiva evangelica: la preghiera ininterrotta, per tutti, nella solitudine e nel silenzio più radicali.
- Quando è nata in lei questa vocazione?
Ho sempre avuto questo desiderio di preghiera in solitudine fin da quando abitavo in città. Anche nella mia vita c’è stata una esperienza di convivenza in un Istituto secolare, ma è stata di breve durata. E da adolescente sono stata impegnata come dirigente nell’Azione Cattolica. Ma la vita eremitica vera e propria l’ho iniziata intorno ai cinquant’anni. E sono molto gelosa della mia laicità.
- Una scelta così radicale consente di fare più rapidamente “carriera” nella vita spirituale?
La cosa più importante è essere cristiani. Per me non hanno alcun significato certe dichiarazioni circa la "radicalità" della vita monastica. Come se la vita cristiana, vissuta con altre modalità, fosse meno radicale, più povera e meno profondamente cristiana. Non ci sono categorie privilegiate nel mondo dello spirito. Amo molto la normalità e detesto tutte le classifiche. Invece si ricorre spesso alle metafore sportive. Ma é certo un errore insinuare l'idea di cristiani di serie A, più o meno bravi, più o meno radicalmente cristiani, dove l'eminenza non consisterebbe più nella misura della carità, bensì nell'adozione di un particolare stile di vita.
- Come vivono oggi gli eremiti?
Gente che comunica da una coscienza all’altra senza la deviazione concettuale. È commovente incontrare uomini e donne così che tracciano la loro strada facendo corpo con quello in cui credono. Puntini neri che si intravvedono su un'immensità di neve, in balia del freddo e della solitudine, il prezzo del biglietto di ingresso per introdurre altri come loro nell’intimità con l’Altro.“Non dimenticherò mai le nozze con la montagna” scriveva père Jean, nato in una paese di pianura e vissuto per quasi mezzo secolo nell’orizzonte limitato dai pioppi e dalle betulle delle praterie fiamminghe e per un altro decennio sugli altipiani selvaggi dell’Africa. “La mia vita si organizza. Vivere da solo sulla montagna è un affar serio. L’inverno si avvicina. Cinque mesi di neve in media. A volte sei o sette. Approfitto degli ultimi giorni buoni per fare legna. La foresta è là” scriveva agli inizi della sua esperienza.E, dopo avere ansimato per salire fino alla capanna, con qualche ramo sulle spalle, si diceva “Bisogna proprio essere pazzi per faticare tanto, quando in un qualunque monastero si potrebbe avere tutto! Bisogna essere pazzi; fare da sé quello che altri farebbero per voi in tutte le abbazie del mondo! Non c’è dubbio bisogna essere pazzi. Non so cosa ne pensino i contadini del villaggio laggiù in fondo alla valle”. Ma abbiamo saputo che i valligiani dicevano di lui che “quello finalmente era un uomo vero” e ne avevano il più grande rispetto.
- Cosa ne pensa la Chiesa?
Eppure, malgrado il sorgere di migliaia di abbazie, monasteri, conventi, dove la vita religiosa era in comune e istituzionalizzata, molti credenti continuarono a seguire la vocazione all’isolamento, alla solitudine, alla libertà di redigersi essi stessi la "loro" regola. Il declino cominciò con il Concilio di Trento, che diffidò degli anacoreti perché incontrollabili e si concluse con il Settecento dei Lumi e con la Rivoluzione francese che perseguitò questi «parassiti asociali», nonché «oscurantisti fanatici», come li considerava.All’interno della Chiesa cattolica, la vocazione speciale alla solitudine era stata da tempo incanalata in ordini religiosi come quello dei certosini o dei camaldolesi, dove l’isolamento è unito alla comunione con i fratelli nella preghiera e nella conversazione, seppure una sola volta alla settimana. Il silenzio del Codice ecclesiale del 1917 è, lo si diceva, significativo: niente più anacoreti, dunque niente regolamentazione. E invece, questa vocazione - rara ma insopprimibile - non è affatto scomparsa ma covava sotto la cenere. Come ha dovuto prendere atto il nuovo Codice, pubblicato nel 1983.
- In che rapporto è con la Chiesa?
Di assoluta fedeltà a quelle che sono le nozioni fondamentali della Chiesa. Ma di altrettanto chiara conflittualità con norme da osservare che non sono bibliche o di fede. Perché le teologie sono tante, ma la fede è una sola.
(Fonte: www.auraweb.it)
(Fonte: www.auraweb.it)
2 commenti:
Grazie per il blog (anch'esso eremitico) e l'articolo..
Max
C'è sempre una forma di ipocrisia mescolare ìl tutto umano e cerebrale, con il tutto divino che è in tutte le cose, ma non in tutte le scienze, nè in tutte le teologie! Il piacere della ricerca, come autoaffermazione fa sembrare sublime quello che è puramente sensoriale... Analizzando bene, c'era tanta confusione...
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