IDEE, PROPOSTE E PROGETTI

IDEE E PROGETTI CONDIVISI

venerdì 3 marzo 2017

Sui nuovi eremiti

Alcuni passaggi di un articolo di Liliana Lattanzi 
(Fonte: http://www.dehoniane.it:9080/komodo/trunk/webapp/web/files/riviste/archivio/05/20050922a.htm)

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FORME
DI VITA EREMITICA

Le modalità in cui i nuovi eremiti realizzano la loro vocazione sono in parte antiche in parte nuove. C’è chi vive la sua chiamata all’interno di alcuni ordini monastici di antica tradizione, come il camaldolese (di Arezzo e di Monte Corona) e il certosino. Ma anche in altri ordini, come quello cistercense, benedettino, o francescano, sono possibili ancora oggi esperienze di vita eremitica, temporanee o definitive, che affiancano la vita cenobitica prevalente.
Addirittura presso alcuni ordini, come quello dei Camaldolesi, ancora oggi sono consentite forme di “reclusione” volontaria, peraltro praticate da sempre2.
Ma accanto a queste forme tradizionali, mai venute meno nella Chiesa anche se con declini e ritorni, cresce e si diffonde l’eremitismo diocesano, per molti aspetti nuovo, reso possibile, appunto, dal canone 603 del CIC.
È caratterizzato da flessibilità e varietà negli stili di vita, garantite da una regola ad personam, che il Vescovo approva quasi riconoscendo all’anacoreta una sorta di “contrattualità”. Infatti le modalità concrete in cui la chiamata eremitica si concretizza vengono in qualche modo “contrattate” con il vescovo, che riceve la professione dei voti dell’anacoreta e legittima così il suo carisma all’interno della Chiesa.
L’eremita diocesano, non più affidato alla mediazione dell’ordine monastico, ha quindi nel vescovo il suo diretto referente. Una novità assoluta nella vita della Chiesa. In qualche modo emerge l’idea di una ecclesialità della vita cristiana, inserita sì in una dimensione universale, ma vissuta e concretizzata all’interno della Chiesa diocesana. Inoltre il dono comporta una responsabilità, un impegno di vita, che l’eremita stesso si dà adattandolo alla sua personale situazione.
È una forma di vita, questa, alla quale si accostano laici, religiosi e anche preti diocesani. Individualmente o a gruppi di due o tre persone. Con un impegno stabile o temporaneo. Alcuni coltivano l’ospitalità, altri scelgono un silenzio e una solitudine più radicali. C’è poi chi porta l’abito religioso e chi vuole l’anonimato in tutto, compresi l’abbigliamento e lo stile di vita.
Un discorso tutto da approfondire è quello di una presenza, che dalle ricerche sembrerebbe prevalente, di religiosi o ex religiosi nell’utilizzo di questo modello istituzionale di vita eremitica.
Un dato tutto da interpretare. Stanchezza rispetto alle forme più tradizionali della vita religiosa? Rifiuto di un attivismo e di un efficientismo vissuti come eccessivi o per lo meno tali da non permettere una adeguata cura delle cose interiori? Rifiuto di una vita religiosa spesso soffocata da rigidità di tipo strutturale, da vincoli burocratici, sociali ed ecclesiali? O semplicemente voglia di recuperare una spiritualità più profonda, più fondata sull’interiorità e la preghiera?

GLI EREMITI
LIBERI

Accanto a questi due modelli istituzionali di vita eremitica, uno antico e l’altro nuovo, c’è un terzo modello, non istituzionale, non riconosciuto, ma ugualmente legittimo e meritorio se attuato nella condizione di una comunione reale con la Chiesa. Si tratta dell’eremitismo libero, senza regole né riconoscimenti ecclesiali, senza vincoli e impegni come i tradizionali voti religiosi.
Questi eremiti non sono ovviamente citati nel secondo paragrafo del canone 603, però ne parla il Catechismo della Chiesa cattolica (920-921).
Se un battezzato, dopo attento discernimento e in piena comunione con la Chiesa, decide di vivere la sua chiamata alla solitudine e al deserto senza alcun vincolo, è pienamente legittimato a farlo in virtù del suo battesimo. Tuttavia, proprio perché questo tipo di vita richiede grande e sperimentata maturità umana e spirituale, è opportuno che l’eremita adotti alcune fondamentali precauzioni per evitare che una certa superficialità venga a snaturare o anche semplicemente ad appannare il suo dono.
Perché dietro la radicalità di una scelta spirituale possono celarsi bisogni di fuga, rifiuti di responsabilità, forme di disadattamento psicologico o difficoltà a relazionarsi sul piano sociale. E soprattutto perché una scelta così impegnativa richiede comunque sempre un punto di riferimento certo e costante (un padre spirituale, un confessore, un monastero…) per una verifica e un discernimento che devono essere continui nel tempo. Se questo è necessario per l’eremitismo istituzionale a maggior ragione lo è per quello libero.
C’è chi dice che sono loro i veri eremiti. E chi vede invece nella loro esperienza di vita una contestazione esplicita o implicita nei confronti della stessa Chiesa istituzionale. Affermazioni, queste, tutte da verificare, anche se è credibile che almeno in parte questo aspetto sia presente in talune esperienze.

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GLI EREMITI
DIOCESANI

Nel secondo paragrafo, il canone 603 così afferma: «L’eremita è riconosciuto dal diritto canonico come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva la norma di vita che gli è propria». È in sostanza il riconoscimento di eremiti istituzionali che non sono monastici. Il vescovo, diretto referente dell’eremita, ha nei suoi confronti un ruolo di “guida”, di sostegno nel vivere la “norma di vita” che egli stesso si è dato.
C’è chi dice che in questo caso meglio sarebbe parlare di progetto più che di regola di vita, per sottolinearne una maggiore flessibilità e capacità di adattamento. Ma questo non cambia di molto la lettura del canone. Il legislatore prefigura comunque con chiarezza un ruolo discreto del vescovo nel governo di questo carisma escludendo forme di intervento attivo e diretto.
In ogni caso, il rifiorire di questa particolare forma di vita, pone indubbiamente alla Chiesa tutta una serie di interrogativi e di problemi.
Questi nuovi contemplativi infatti sempre più spesso bussano alle porte delle comunità monastiche tradizionali per chiedere il sostegno di una guida spirituale o anche semplicemente per essere aiutati nei momenti della formazione. A volte un monastero diventa per loro il luogo concreto in cui approfondire una spiritualità di riferimento. Per alcuni solitari il legame con una comunità contemplativa diviene stabile e prevede momenti annuali di soggiorno nel monastero stesso, e un ruolo spirituale dell’abate o dell’abbadessa, a cui il vescovo affida l’eremita , perché lo segua e lo aiuti nel suo cammino di solitario.
Non c’è dubbio che anche le comunità monastiche tradizionali dovranno in qualche modo interrogarsi sul ruolo che possono avere nei confronti di tutti quei battezzati che, in forma stabile o anche solo transitoria, volessero scegliere questa forma di vita, e attrezzarsi di conseguenza.

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SOLITARI
NELLE CITTÀ

La novità di una rilettura dell’eremitismo antico appare più evidente soprattutto in quelli che molti definiscono gli eremiti metropolitani, i solitari nelle città.
Della «separazione dal mondo» accentuano gli aspetti più simbolici e interiori ridimensionando quella separazione fisica che però conservano in alcuni momenti e aspetti della loro vita e ritengono comunque necessaria. La città, per loro, è il simbolo del cammino terreno degli uomini, con il suo carico di solitudini, di incomunicabilità, con i suoi rumori, i suoi mali. La città è il moderno deserto in cui l’uomo costruisce i suoi idoli, il successo, i piaceri, il consumo sfrenato, il mito dell’efficienza, dell’effimero, l’idolatria dei poteri.
Ma la città è anche il luogo in cui gli uomini sono chiamati a incontrarsi, a vivere la storia e il tempo che è stato loro donato, a incontrare Dio, a camminare verso la celeste Gerusalemme sapendo che però nel mistero essa è già presente nel mondo. È qui, sul campo, che alcuni solitari, testimoniando la speranza che hanno nel cuore, realizzano con la loro vita una nuova e tutta interiore fuga mundi. Essere nel mondo senza essere del mondo: cioè amarlo e odiarlo, come ha fatto Gesù.
Perciò sono soprattutto le barriere dello spirito quelle che innalzano, per custodire il cuore dalle distrazioni e dal male. Ripropongono, nei deserti delle città, l’idea del combattimento spirituale. Sul campo, viso a viso, corpo a corpo, senza fuggire, con le armi di Dio.
Anche per gli antichi padri il termine mondo stava ad indicare gli aspetti più decaduti della natura umana, non certo il rifiuto della convivenza umana in quanto tale. «Non può avvicinarsi a Dio se non colui che si allontana dal mondo – così afferma un grande solitario, Isacco di Ninive –. Migrazione però: io non parlo di distacco dal corpo, ma dai suoi desideri. Questa è la virtù: essere, nel proprio pensiero, vuoti di mondo»14.
I solitari delle città vivono nel silenzio delle loro case, nell’anonimato, dedicandosi alla preghiera e alla meditazione della parola di Dio. Vivono sobriamente, del loro lavoro. Si ritagliano spazi significativi, nella giornata – prevalentemente al mattino e alla sera – da dedicare alla preghiera liturgica e personale e all’ ascolto della parola. Qualcuno di loro nella regola o progetto di vita, prevede rientri in alcuni tempi dell’anno in una comunità monastica di riferimento. Sono laici e sacerdoti, consacrati secondo il canone 603 ma anche liberi.15
Riprendono e attualizzano nel contesto metropolitano la pratica della preghiera incessante, fatta in una cella che di volta in volta è il mondo, l’autostrada percorsa in automobile, il luogo di lavoro, la strada affollata di gente, il tram, o la silenziosa intimità del proprio appartamento. Con la loro vita testimoniano la sfida dell’uomo moderno a trovare Dio, e a lasciarsi trovare da lui.
Non di pura tecnica o prassi si tratta. La preghiera incessante che animava il monachesimo delle origini , può ancora illuminare la vita dei cristiani oggi, chiamati a essere, come Giovanni, «lampada che arde e risplende», pietre vive nell’edificio spirituale che è la chiesa di Dio. Questi moderni solitari , pur nella radicalità di una scelta che non appartiene a tutti, indicano con forza la bellezza della vocazione di ogni battezzato, che è di rendere con la propria vita, in ogni momento culto a Dio, come afferma anche la Lumen gentium al c.34, a proposito della partecipazione dei laici al sacerdozio comune.
E quindi alla fine, proprio loro che sembrano lasciare il mondo tagliando un po’ su tutto: cose, relazioni, incontri, parole, sono proprio loro a testimoniarci, con la vita, che il mondo è bello perché appartiene a Dio, che Dio lo si può incontrare e lodare ovunque, ovunque si può, nella cella del cuore, intercedere per ogni fratello che si incontra. Quello che il concilio ha definito consecratio mundi – sempre nello stesso capitolo della costituzione Lumen gentium – passa nel cuore di ogni credente, che è reso capace, in Cristo, di attraversare il mondo santificando tutto ciò che tocca o che fa. E proprio nel rapporto con il mondo si gioca il futuro della Chiesa del terzo millennio e quello dell’evangelizzazione.
«Nascosta agli occhi degli uomini, la vita dell’eremita è predicazione silenziosa di colui al quale ha consegnato la sua vita, poiché egli è tutto per lui»: così il Catechismo della Chiesa cattolica definisce la vita eremitica. E forse nessuna definizione è più appropriata di questa (CCC 921).
Pur con tutti i loro limiti, magari anche con qualche eccesso o stravaganza di troppo, i moderni eremiti ci indicano, profeticamente, un rapporto col mondo fatto di immersione e di separatezza, di amore profondo ma anche di odio, nella consapevolezza che il deserto attraversa ogni storia e ogni vita, ma alla fine, per tutti, è solo e soltanto un passaggio verso la vita, quella vera. Gli eremiti, oggi, ci insegnano a camminare nel deserto, animati dalle parole di Gesù :«... quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via» (Gv.14,3-4).


lunedì 9 gennaio 2017

Viaggio tra gli eremiti d’Italia 1 – Se la solitudine è uno spazio sacro

(Fonte)
http://www.italiachecambia.org/2016/11/viaggio-eremiti-italia-spazio-solitudine/

Scritto il  da  in 

Come ci si accosta a chi ha fatto della solitudine il proprio stile di vita senza invadere quello spazio sacro di ricerca e raccoglimento? A qualche settimana dalla partenza, ecco la prima puntata del diario del viaggio tra gli eremiti d'Italia intrapreso da Alessandro Seidita e Joshua Wahlen, due giovani registi che racconteranno questa esperienza nel documentario “Voci dal Silenzio”.


Ancora prima d’iniziare il viaggio, immaginavamo che non sarebbe stato semplice sviluppare una ricerca documentaristica sull’esperienza eremitica. Comprendevamo che ci stavamo per muovere all’interno di un paradosso, perché in fondo volevamo provare a raccontare qualcosa che perde il suo significato proprio nel momento in cui lo si racconta. Per incoscienza, o per l’infatuazione data dal fascino della meta irraggiungibile, proseguimmo nell’idea, indifferenti ai primi campanelli d’allarme. Ma i campanelli divennero ben presto assordanti.
“Non si mette facilmente nel sacco un eremita”, esordì Padre Isacco non appena ci vide spuntare carichi di attrezzatura e con i pantaloni infangati fino alle ginocchia. E così fu.  Ripercorremmo il sentiero scosceso in direzione opposta senza nessuna intervista tra le mani.

Alessandro Seidita e Joshua Wahlen con Padre Isacco

La negoziazione con Corrado durò più a lungo: “Corrado, la difficoltà del nostro lavoro consiste proprio in questo, portare l’eremita a scendere dalla propria montagna per condividere l’esperienza con il resto del mondo, così come fece Zarathustra”. Corrado era capace di risponderci solo con lo sguardo, uno sguardo che racchiudeva in sé tutta la profondità e il conflitto di chi s’immerge nella solitudine.
Ragionammo insieme tutta la giornata sulla possibilità o no di realizzare l’intervista. I discorsi si fecero eterei, rarefatti. Improvvisamente nessuno parlò più. Seguirono lunghi minuti di silenzio. Corrado infine rialzò lo sguardo e disse: “la solitudine per me significa essere con gli altri senza essere con gli altri. Esserci attraverso il non essere presente”. Finimmo per comprendere la sua necessità di non cedere alle nostre richieste e di mantenere integro lo spazio di silenzio a cui era votato.
Questo elemento d’incertezza che portiamo dentro di noi, il dubbio se sia giusto o no raccontare l’esperienza eremitica, ci ha reso liberi dalla violenza dell’atto persuasivo. Ci si ritrova a condividere la stessa danza appassionata, danza che spesso porta a un nulla di fatto, ma che lascia sempre l’emozione dell’essersi avvicinati, o forse anche toccati, in forme rare di prossimità.
Sulla soglia dell’eremo di Padre Isacco, azzardammo: “E se domani passassimo dell’altro tempo insieme, sarebbe un problema?”. Con aria divertita cominciò a tamburellare l’indice sull’iscrizione appesa all’entrata dell’eremo, come a dirci leggete, leggete: “Habitantibus hic oppidum carcer est et solitudo paradisus”. Incapaci di tradurre la scritta in latino lo guardammo con aria spaesata. La scritta diceva letteralmente “per chi abita qui, la città è il carcere la solitudine il paradiso”. Capirete dunque il senso di meraviglia quando disse: “potete farmi visita tutte le volte che lo desiderate”.


Rosalba
Con Rosalba ci siamo affiancati con la più grande delicatezza. Ogni incontro richiede delle modalità di approccio differenti. Sapevamo di avere di fronte una donna anziana che ospitava un mondo di fragilità e sofferenza. Quando le abbiamo parlato per la prima volta del documentario ci disse: “Devo chiedere al Signore, se lui vuole potete intervistarmi”. Abbiamo fermato il camper all’interno di un posteggio anonimo di una cittadina altrettanto anonima. La pioggia cadeva senza sosta. Ogni giorno ci recavamo all’interno della grotta dove dormiva. La trovavamo in ginocchio di fronte alla statua della Madonna e attendevamo la sua risposta seduti su di una panchina. Stretti l’uno all’altro ci riparavamo dal freddo o ci gomitavamo a vicenda se la testa cominciava a cadere per il sonno.
Dopo ore di attesa Rosalba riappariva come per miraggio: “oggi il Signore non vuole, ma domani chissà…”. Un altro giorno di attesa per noi. Un altro giorno in cui arrivi a mettere in questione non solo il tuo lavoro artistico, ma la tua vita in generale. Siamo rimasti lì ad aspettare per giorni. Ed è così che abbiamo scoperto di possedere anche noi una fede. Non ci importava più se il responso che attendevamo sarebbe arrivato dall’alto o dagli sguizzi disinteressati di una mente visionaria. Era per noi l’adesione totale a un gioco, un gioco che prendeva senso nella misura in cui decidevamo di crederci. Poi, improvvisamente, la risposta positiva. Ed è così che riuscimmo a raccogliere una delle interviste più interessanti dei nostri ultimi anni.
Ogni eremita a cui abbiamo fatto visita vive l’esperienza di solitudine in una maniera del tutto personale. Padre Isacco ha una rubrica in cui segna i giorni di effettiva solitudine. “Riesco a conservarne all’incirca 180 durante tutto l’anno, giorni in cui non incontro un solo volto umano. Mi risultano sempre troppo pochi” .

L’eremo di Paola
L’eremo di Paola è un via vai di coppie, bambini, gruppetti religiosi. Considera ore di preghiera anche il tempo di ascolto che dedica ai suoi ospiti. Per preservare la sua solitudine, tuttavia, si è dovuta costruire un eremo nell’eremo nascosto tra la vegetazione e raggiungibile solo calandosi da una corda. Corrado invece sembra avere abbracciato quell’antica saggezza orientale costruita sulla logica del non fare “lascia fare, astieniti più che puoi, inagisci. L’erba cresce anche senza zappare, i bambini diventano adulti anche senza innaffiarli. Il sudore non serve, la fatica è un di più; e anche tu, non sei essenziale: sei un regalo. Non aver furia a spacchettarti.” Così scrive nelle pagine di un suo diario. Tuttavia, il suo principio del non fare, non lo esime dal sostegno che giornalmente offre ai genitori oramai anziani.
Valeria, infine, si è avvicinata alla dimensione della preghiera a partire dalla malattia, un percorso progressivo che l’ha portata a ricercare una dimora interiore capace di manifestare il senso pieno del suo esistere. “La crisi vissuta è stata un aiuto per entrare nell’altra dimensione, nella profondità che da senso alla vita. Solo in questo modo sono riuscita a sfondare le porte della fortezza in cui ero rinchiusa”.
Questi segni di rottura diventano la conferma che questo mondo delle illusioni non ci domina in fondo del tutto, che avvengono sempre delle interferenze capaci di portarci fuori dal gioco. Racconta Corrado:
“Ho vissuto per 50 anni pensando che fossi io a muovere il mondo, poi la malattia mi ha fermato e mi sono reso conto che il mondo continuava a girare tranquillamente senza di me. Da quel momento ho compreso che non c’era nessun bisogno di “fare”. Avevo la chiara sensazione della mia piccolezza rispetto a qualcosa di più grande che abita dentro e fuori di me. La mia scelta non è stata di certo razionale. Ero misteriosamente guidato. Probabilmente ero talmente testone che, per capire tutto questo, dovevo passare dentro una profonda sofferenza”.

Paola
L’esperienza con la morte diventa un elemento ricorrente nei racconti degli eremiti finora incontrati. Essa rappresenta spesso l’occasione per allontanarsi dall’ordinaria relazione con sé e con il mondo, per separarsi dai modelli comportamentali subiti in maniera inconsapevole. Un percorso di espoliazione, di liberazione dagli strati superflui di cui si riveste l’io. Ed è a partire da questo movimento che si ritorna sempre al principio primo: l’Amore.
Amare ma soprattutto sentirsi amato, in un’esperienza penetrante, pervasiva. L’eremita attraversa lo spazio della solitudine alla ricerca di quell’Amore che non ha scoperto all’interno della socialità. Arso da questo desiderio si ritrova ad abitare spazi inospitali, della natura terrestre e di quella umana. L’eremo diventa immagine riflessa del corpo, abitazione dell’anima. “Quale senso può avere la mortificazione del corpo… Il mio spirito risiede all’interno di questa casa ed è solo da qui che posso ricavare gli strumenti per avvicinarmi a Dio”. All’interno di questo rapporto di cura l’eremita cerca di recuperare un alfabeto perduto. Ricostruisce un legame con il paesaggio circostante e con le creature che lo abitano.
Tutto ciò attraverso un esercizio e un’azione continua: il recupero della legna, la manutenzione del luogo, la cura dell’orto e dell’abitazione, la lotta contro l’avanzata famelica della vegetazione circostante. L’esercizio contemplativo si protrae nella fatica fisica, nell’intelligenza pratica per la sopravvivenza. E i segni di questo lavoro sono spesso facilmente visibili. “Volete riconoscere un vero eremita? guardategli le mani!”. Tutto ciò rende l’eremitismo una realtà profondamente complessa, a volte indecifrabile. All’interno di questo luogo non c’è solo l’esercizio della preghiera, ma un’azione che ha continui risvolti politici, estetici, metafisici. L’eremo diventa così un laboratorio alchemico dove giornalmente si cerca di estrarre il senso profondo delle cose e di se stessi.


Riprese in Piemonte
Queste pagine, e quelle che successivamente pubblicheremo, fanno parte di un diario di viaggio che ha il fine di raccontare ciò che l’esperienza filmica (1), da sola, non può cogliere: il retroscena intimo che precede e segue ogni incontro, la trama di pudore di cui si compone l’esperienza di ogni persona incontrata. È anche un modo per calarci interamente all’interno della ricerca e creare un ulteriore spazio di riflessione. Un modo, insomma, per accompagnare il viaggio e avvicinarci a una più sincera comprensione delle realtà che andremo documentando.

1. Le storie degli eremiti incontrati durante questo viaggio, i conflitti e la vocazione di chi ha scelto di vivere in solitudine saranno raccontati nel documentario“Voci dal Silenzio”, che cercherà di sviluppare un discorso corale sull’esperienza ascetica. Per partecipare al progetto Clicca qui:
https://www.produzionidalbasso.com/project/voci-dal-silenzio/


Per leggere altri articoli su“Voci dal Silenzio”, un documentario sugli eremiti d'Italia vai qui:

"Vivere in disparte per essere al cuore del mondo". Il convegno dei nuovi eremiti a Firenze

Esistono ancora gli eremiti? La risposta è sì e in italia ne vivono circa duecento, di cui una buona parte sono anche donne e laici. Eccezionalmente I nuovi eremiti hanno abbandonato i loro luoghi di isolamento e di silenzio e hanno deciso di riunirsi a Firenze al convegno: «Vivere in disparte per essere al cuore del mondo». Una massima, quella dello scrittore e religioso americano Thomas Merton, a descrivere questo incontro speciale: «Nella mia solitudine sono diventato un esploratore per te, un viandante di regni, che tu non sei in grado di visitare. Sono stato chiamato a esplorare un’area deserta del cuore umano».
Vivono «come gufi nella notte», così li definì Cristina Saviozzi in un fortunato libro edito da San Paolo, nascosti in appartamenti anonimi all’interno delle nostre città o in masi abbarbicati su montagne difficili da raggiungere. Ma tre giorni fa, in via del tutto eccezionale, hanno scelto di scendere “a valle”.
Gli eremiti, quelli di oggi, ci stupiscono: alcuni di loro sono persone come tante, uomini e donne che hanno deciso di allontanarsi dalla loro vita di tutti i giorni e di dedicarsi alla solitudine del silenzio e della preghiera. Sono tanti, e vivono in luoghiu molti diversi, in montagna ma anche in città.
Difficile censirli. Arduo, anche, incontrarli. Amano fuggire dal rumore del mondo seguendo solo e soltanto il richiamo dello Spirito. Un richiamo esigente, che porta alcuni di loro — non tutti — a vivere «sulla soglia», come diceva di sé la filosofa e mistica francese Simone Weil, senza cioè alcun riconoscimento da parte della Chiesa.
Tra gli eremiti di oggi ci sono anche molte donne. La riflessione spirituale è la loro missione e si trovano spesso a dare conforto anche a chi viene dalla città, a chi non ha un minuto o lo spazio per dedicarsi a un momento per sé. E le donne sono per nascita accoglienti, spiega l'eremita Marta Galli.
«Siamo sempre di più — racconta l’eremita Marta Gatti, che vive nell’entroterra del Garda in un appartamento adiacente a una chiesa — e il motivo forse è uno: gli eremiti, lo vogliano o no, accolgono tante persone bisognose di ascolto e attenzione. E in noi donne questa dote dell’accogliere è naturale».
A Firenze gli eremiti Italiani hanno raccontato le loro esperienze e fra loro c'era anche Raffaele Busnelli, che fino a pochi anni fa era un semplice prete e che ha deciso di ritirarsi in montagna. Ma tra i nuovi eremiti esistono anche quelli laici, che scelgono di dedicarsi alla vita spirituale pur non appartenendo ad alcuna congregazione religiosa.
Non tutti, insomma, sono come l’alcantarino Carlo di San Pasquale — di lui ha scritto Francesco Lepore in Seraphica Charitas, Libreria Editrice Vaticana — che da religioso abbracciò l’eremitaggio. Esiste anche un mondo laico che opta per il silenzio, donne e uomini comuni che abbracciano una vita di privazione per essere soli con Dio: sveglia a notte fonda, la preghiera fino all’alba, il silenzio come regola di vita. Poi i lavori manuali in casa, l’accoglienza della gente che bussa e quindi, al calar del sole, il riposo.
Un esempio è Paola Biacino, donna che ha deciso di vivere in solitudine in una piccola baita, due metri per tre, vicino Cuneo. Paola, quando la neve fuori è troppo alta, non incontra nessuno anche per mesi. Oppure Antonella Lumini, che si potrebbe definire proprio una nuova eremita. Antonella vive nel centro storico di Firenze ed è attualmente in pensione. Prima si manteneva lavorando part time sui testi antichi della Biblioteca Nazionale. La dedizione totale alla vita spirituale oggi può assumere diverse forme e la sua vita ne è la testimonianza.
Ogni giorno, terminato il lavoro nel primo pomeriggio, tornava a casa e si apriva al silenzio. Una stanza, che lei chiama «pustinia » («deserto» in russo), è a esso dedicata. Qui ancora oggi Antonella ascolta la voce dello Spirito. Qui riceve le persone che necessitano di aiuto e discernimento nelle difficoltà della propria esistenza quotidiana.
Le esperienze di queste donne hanno varie forme, la dedizione alla vita spirituale è esercitata in molti modi dalle varie eremite ed eremiti. Esistenze apparentemente diverse, ma che si concentrano tutte sulla predilezione della vita del pensiero. Lucia ha infatti un'altra storia: è religiosa e vive in un'antica chiesa in Val Camonica del XV secolo. In questa chiesa ha già vissuto un altro eremita, chiamato " il rumit".
Poi per duecento anni non c’è stato più nessuno finché, dice, «sono arrivata io». «Il luogo mi ha convinto subito. Lo Spirito necessita anche di un ambiente adatto in cui vivere, esprimersi. Il luogo, per l’eremita, diventa sacramento. Da quell’eremo non sono più uscita. Scrivo icone, studio e accolgo gente. Recentemente, ad esempio, ho accolto tre donne che avevano subito violenze da piccole. L’eremo ha fatto riscoprire la parte più pura, intatta, della loro persona. Spesso con me le persone fanno dei cammini di liberazione. Mi aiutano anche psicologi e terapeuti».
(Nota: Il convegno si è tenuto dal 6 al 9 ottobre 2016)