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venerdì 3 marzo 2017

Sui nuovi eremiti

Alcuni passaggi di un articolo di Liliana Lattanzi 
(Fonte: http://www.dehoniane.it:9080/komodo/trunk/webapp/web/files/riviste/archivio/05/20050922a.htm)

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FORME
DI VITA EREMITICA

Le modalità in cui i nuovi eremiti realizzano la loro vocazione sono in parte antiche in parte nuove. C’è chi vive la sua chiamata all’interno di alcuni ordini monastici di antica tradizione, come il camaldolese (di Arezzo e di Monte Corona) e il certosino. Ma anche in altri ordini, come quello cistercense, benedettino, o francescano, sono possibili ancora oggi esperienze di vita eremitica, temporanee o definitive, che affiancano la vita cenobitica prevalente.
Addirittura presso alcuni ordini, come quello dei Camaldolesi, ancora oggi sono consentite forme di “reclusione” volontaria, peraltro praticate da sempre2.
Ma accanto a queste forme tradizionali, mai venute meno nella Chiesa anche se con declini e ritorni, cresce e si diffonde l’eremitismo diocesano, per molti aspetti nuovo, reso possibile, appunto, dal canone 603 del CIC.
È caratterizzato da flessibilità e varietà negli stili di vita, garantite da una regola ad personam, che il Vescovo approva quasi riconoscendo all’anacoreta una sorta di “contrattualità”. Infatti le modalità concrete in cui la chiamata eremitica si concretizza vengono in qualche modo “contrattate” con il vescovo, che riceve la professione dei voti dell’anacoreta e legittima così il suo carisma all’interno della Chiesa.
L’eremita diocesano, non più affidato alla mediazione dell’ordine monastico, ha quindi nel vescovo il suo diretto referente. Una novità assoluta nella vita della Chiesa. In qualche modo emerge l’idea di una ecclesialità della vita cristiana, inserita sì in una dimensione universale, ma vissuta e concretizzata all’interno della Chiesa diocesana. Inoltre il dono comporta una responsabilità, un impegno di vita, che l’eremita stesso si dà adattandolo alla sua personale situazione.
È una forma di vita, questa, alla quale si accostano laici, religiosi e anche preti diocesani. Individualmente o a gruppi di due o tre persone. Con un impegno stabile o temporaneo. Alcuni coltivano l’ospitalità, altri scelgono un silenzio e una solitudine più radicali. C’è poi chi porta l’abito religioso e chi vuole l’anonimato in tutto, compresi l’abbigliamento e lo stile di vita.
Un discorso tutto da approfondire è quello di una presenza, che dalle ricerche sembrerebbe prevalente, di religiosi o ex religiosi nell’utilizzo di questo modello istituzionale di vita eremitica.
Un dato tutto da interpretare. Stanchezza rispetto alle forme più tradizionali della vita religiosa? Rifiuto di un attivismo e di un efficientismo vissuti come eccessivi o per lo meno tali da non permettere una adeguata cura delle cose interiori? Rifiuto di una vita religiosa spesso soffocata da rigidità di tipo strutturale, da vincoli burocratici, sociali ed ecclesiali? O semplicemente voglia di recuperare una spiritualità più profonda, più fondata sull’interiorità e la preghiera?

GLI EREMITI
LIBERI

Accanto a questi due modelli istituzionali di vita eremitica, uno antico e l’altro nuovo, c’è un terzo modello, non istituzionale, non riconosciuto, ma ugualmente legittimo e meritorio se attuato nella condizione di una comunione reale con la Chiesa. Si tratta dell’eremitismo libero, senza regole né riconoscimenti ecclesiali, senza vincoli e impegni come i tradizionali voti religiosi.
Questi eremiti non sono ovviamente citati nel secondo paragrafo del canone 603, però ne parla il Catechismo della Chiesa cattolica (920-921).
Se un battezzato, dopo attento discernimento e in piena comunione con la Chiesa, decide di vivere la sua chiamata alla solitudine e al deserto senza alcun vincolo, è pienamente legittimato a farlo in virtù del suo battesimo. Tuttavia, proprio perché questo tipo di vita richiede grande e sperimentata maturità umana e spirituale, è opportuno che l’eremita adotti alcune fondamentali precauzioni per evitare che una certa superficialità venga a snaturare o anche semplicemente ad appannare il suo dono.
Perché dietro la radicalità di una scelta spirituale possono celarsi bisogni di fuga, rifiuti di responsabilità, forme di disadattamento psicologico o difficoltà a relazionarsi sul piano sociale. E soprattutto perché una scelta così impegnativa richiede comunque sempre un punto di riferimento certo e costante (un padre spirituale, un confessore, un monastero…) per una verifica e un discernimento che devono essere continui nel tempo. Se questo è necessario per l’eremitismo istituzionale a maggior ragione lo è per quello libero.
C’è chi dice che sono loro i veri eremiti. E chi vede invece nella loro esperienza di vita una contestazione esplicita o implicita nei confronti della stessa Chiesa istituzionale. Affermazioni, queste, tutte da verificare, anche se è credibile che almeno in parte questo aspetto sia presente in talune esperienze.

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GLI EREMITI
DIOCESANI

Nel secondo paragrafo, il canone 603 così afferma: «L’eremita è riconosciuto dal diritto canonico come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva la norma di vita che gli è propria». È in sostanza il riconoscimento di eremiti istituzionali che non sono monastici. Il vescovo, diretto referente dell’eremita, ha nei suoi confronti un ruolo di “guida”, di sostegno nel vivere la “norma di vita” che egli stesso si è dato.
C’è chi dice che in questo caso meglio sarebbe parlare di progetto più che di regola di vita, per sottolinearne una maggiore flessibilità e capacità di adattamento. Ma questo non cambia di molto la lettura del canone. Il legislatore prefigura comunque con chiarezza un ruolo discreto del vescovo nel governo di questo carisma escludendo forme di intervento attivo e diretto.
In ogni caso, il rifiorire di questa particolare forma di vita, pone indubbiamente alla Chiesa tutta una serie di interrogativi e di problemi.
Questi nuovi contemplativi infatti sempre più spesso bussano alle porte delle comunità monastiche tradizionali per chiedere il sostegno di una guida spirituale o anche semplicemente per essere aiutati nei momenti della formazione. A volte un monastero diventa per loro il luogo concreto in cui approfondire una spiritualità di riferimento. Per alcuni solitari il legame con una comunità contemplativa diviene stabile e prevede momenti annuali di soggiorno nel monastero stesso, e un ruolo spirituale dell’abate o dell’abbadessa, a cui il vescovo affida l’eremita , perché lo segua e lo aiuti nel suo cammino di solitario.
Non c’è dubbio che anche le comunità monastiche tradizionali dovranno in qualche modo interrogarsi sul ruolo che possono avere nei confronti di tutti quei battezzati che, in forma stabile o anche solo transitoria, volessero scegliere questa forma di vita, e attrezzarsi di conseguenza.

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SOLITARI
NELLE CITTÀ

La novità di una rilettura dell’eremitismo antico appare più evidente soprattutto in quelli che molti definiscono gli eremiti metropolitani, i solitari nelle città.
Della «separazione dal mondo» accentuano gli aspetti più simbolici e interiori ridimensionando quella separazione fisica che però conservano in alcuni momenti e aspetti della loro vita e ritengono comunque necessaria. La città, per loro, è il simbolo del cammino terreno degli uomini, con il suo carico di solitudini, di incomunicabilità, con i suoi rumori, i suoi mali. La città è il moderno deserto in cui l’uomo costruisce i suoi idoli, il successo, i piaceri, il consumo sfrenato, il mito dell’efficienza, dell’effimero, l’idolatria dei poteri.
Ma la città è anche il luogo in cui gli uomini sono chiamati a incontrarsi, a vivere la storia e il tempo che è stato loro donato, a incontrare Dio, a camminare verso la celeste Gerusalemme sapendo che però nel mistero essa è già presente nel mondo. È qui, sul campo, che alcuni solitari, testimoniando la speranza che hanno nel cuore, realizzano con la loro vita una nuova e tutta interiore fuga mundi. Essere nel mondo senza essere del mondo: cioè amarlo e odiarlo, come ha fatto Gesù.
Perciò sono soprattutto le barriere dello spirito quelle che innalzano, per custodire il cuore dalle distrazioni e dal male. Ripropongono, nei deserti delle città, l’idea del combattimento spirituale. Sul campo, viso a viso, corpo a corpo, senza fuggire, con le armi di Dio.
Anche per gli antichi padri il termine mondo stava ad indicare gli aspetti più decaduti della natura umana, non certo il rifiuto della convivenza umana in quanto tale. «Non può avvicinarsi a Dio se non colui che si allontana dal mondo – così afferma un grande solitario, Isacco di Ninive –. Migrazione però: io non parlo di distacco dal corpo, ma dai suoi desideri. Questa è la virtù: essere, nel proprio pensiero, vuoti di mondo»14.
I solitari delle città vivono nel silenzio delle loro case, nell’anonimato, dedicandosi alla preghiera e alla meditazione della parola di Dio. Vivono sobriamente, del loro lavoro. Si ritagliano spazi significativi, nella giornata – prevalentemente al mattino e alla sera – da dedicare alla preghiera liturgica e personale e all’ ascolto della parola. Qualcuno di loro nella regola o progetto di vita, prevede rientri in alcuni tempi dell’anno in una comunità monastica di riferimento. Sono laici e sacerdoti, consacrati secondo il canone 603 ma anche liberi.15
Riprendono e attualizzano nel contesto metropolitano la pratica della preghiera incessante, fatta in una cella che di volta in volta è il mondo, l’autostrada percorsa in automobile, il luogo di lavoro, la strada affollata di gente, il tram, o la silenziosa intimità del proprio appartamento. Con la loro vita testimoniano la sfida dell’uomo moderno a trovare Dio, e a lasciarsi trovare da lui.
Non di pura tecnica o prassi si tratta. La preghiera incessante che animava il monachesimo delle origini , può ancora illuminare la vita dei cristiani oggi, chiamati a essere, come Giovanni, «lampada che arde e risplende», pietre vive nell’edificio spirituale che è la chiesa di Dio. Questi moderni solitari , pur nella radicalità di una scelta che non appartiene a tutti, indicano con forza la bellezza della vocazione di ogni battezzato, che è di rendere con la propria vita, in ogni momento culto a Dio, come afferma anche la Lumen gentium al c.34, a proposito della partecipazione dei laici al sacerdozio comune.
E quindi alla fine, proprio loro che sembrano lasciare il mondo tagliando un po’ su tutto: cose, relazioni, incontri, parole, sono proprio loro a testimoniarci, con la vita, che il mondo è bello perché appartiene a Dio, che Dio lo si può incontrare e lodare ovunque, ovunque si può, nella cella del cuore, intercedere per ogni fratello che si incontra. Quello che il concilio ha definito consecratio mundi – sempre nello stesso capitolo della costituzione Lumen gentium – passa nel cuore di ogni credente, che è reso capace, in Cristo, di attraversare il mondo santificando tutto ciò che tocca o che fa. E proprio nel rapporto con il mondo si gioca il futuro della Chiesa del terzo millennio e quello dell’evangelizzazione.
«Nascosta agli occhi degli uomini, la vita dell’eremita è predicazione silenziosa di colui al quale ha consegnato la sua vita, poiché egli è tutto per lui»: così il Catechismo della Chiesa cattolica definisce la vita eremitica. E forse nessuna definizione è più appropriata di questa (CCC 921).
Pur con tutti i loro limiti, magari anche con qualche eccesso o stravaganza di troppo, i moderni eremiti ci indicano, profeticamente, un rapporto col mondo fatto di immersione e di separatezza, di amore profondo ma anche di odio, nella consapevolezza che il deserto attraversa ogni storia e ogni vita, ma alla fine, per tutti, è solo e soltanto un passaggio verso la vita, quella vera. Gli eremiti, oggi, ci insegnano a camminare nel deserto, animati dalle parole di Gesù :«... quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via» (Gv.14,3-4).


3 commenti:

Unknown ha detto...

1) Nelle prime righe della Liliana Lattanzi c'è assimilazione fra "eremita" e "anacoreta", mentre invece hanno significati diversi.
2) Parla di mondo che "si ama e si odia": un eremita mai odia il mondo, che è l'insieme delle persone che ci vivono, odia soltanto i peccati del mondo.
3) Dice che gli eremiti liberi non sono contemplati dal can. 603 ma solo dal Catechismo. Sono invece contemplati dal primo paragrafo del can. 603, il secondo paragrafo riguarda gli eremiti diocesani cioè consacrati pubblicamente dal vescovo (una sparuta minoranza del totale).
Consiglio la lettura di:
it.cathopedia.org/wiki/Eremita

Anonimo ha detto...

Caro Fratello, mi è piaciuta la tua risposta che condivido pienamente. Mi farebbe piacere scambiare le nostre esperienze di "vita eremitica laica" vissute nel mondo, anche se in un certo senso ci ritiriamo nella nostra Cella Interiore, la nostra Dimora. Noi siamo Tempio della Trinità Ss.ma, non dobbiamo mai dimenticarlo. Questo è il segreto per una vita eremitica equilibrata.
Sono sincera, evito tutte quelle forme un pò eccentriche che mi fanno pensare a qualcuno che voglia sfuggire il mondo e le persone. Vorrei farti conoscere un po' il mio stile di vita e sapere anche il tuo pensiero. Sono una consacrata laica, vivo in un piccolo paesino vicino Roma. Da tanti anni ho abbracciato la spiritualità Carmelitana, facendo una buona parte della mia vita, un dono per i fratelli in difficoltà. Dopo la morte dei miei genitori e varie situazioni che il Signore creava intorno a me, ho capito che questa vita, spesa nel volontariato, doveva essere improntata piano piano ad un maggiore silenzio, a un nascondimento e a tutto ciò che portava ad una interiorizzazione di Dio in me. Piano piano ho sentito sempre più il desiderio di una vita più nascosta. Nel mio appartamento mi sono resa conto che lì era il luogo dove Dio mi voleva con maggior assiduità. In breve la mia vita la svolgo attraverso incontri telefonici, corrispondenza mail. Purtroppo alcuni anni fa la malattia ha bussato alla mia porta e per fortuna mi ha trovato preparata. "Una grave caduta" mi ha costretto a camminare pochissimo. Trascorro in un letto gran parte della giornata, ma come ti dicevo avendo tanti interessi mi sento serena.
Concludo augurandoti un cammino spirituale profondo e nello stesso tempo semplice.
Ti lascio la mia mail se vorrai scrivermi. Myriam
myriam.caterina24@gmail.com

EriEmmw ha detto...

A TESTIMONIANZA DI FEDE PRE GRAZIA RICEVUTA

Questa preghiera è molto efficace. Il libro suggerisce di recitarla per 13 giorni di fila davanti a una sua immagine con una candela accesa.

Segno della croce

S.Antonio del fuoco

pregate a nome mio

Gesù onnipotente

e la Mamma sua Maria.

Di ciò che sto cercando

dammi un segno.

In Voi sempre crederò

buoni sentimenti avrò.

Voi che i morti

fate resuscitare,

i prigionieri liberare

mettete in pace i matrimoni,

ci allontanate i demoni,

questa grazia

mi dovete ottenere

(dire la grazia)

( alla fine di ogni giorno recitare tre gloria al padre)

SEMPRE LODE E GLORIA A SANT’ANTONIO ABATE