Sempre la
tradizione monastica ha saputo riconoscere la preghiera come un carisma a lei
affidato: la preghiera è il suo primo dovere, il suo respiro. Il monaco vive in
essa come un pesce nell’acqua; egli l’ha sposata - così i testi antichi tentano
di suggerire il posto che occupa la preghiera nella vita di un monaco -. Ora,
la tradizione ci ha consegnato due tipi di monaci che, proprio per il loro
contrasto, sono un esempio per ogni tipo di preghiera. Da una parte vi è
l’eremita, che si sa chiamato a compiere tutto da solo, nell’assoluto
isolamento; dall’altra c’è il cenobita che, come indica il nome greco, conduce
la sua vita (bios) in comunità (koinos, koinonia): mangia,
lavora, dorme e prega praticamente sempre in comunità, con un minimo di vita
privata.
Nell’ambito
della preghiera l’eremita ha una sola regola: pregare incessantemente.
Qualunque cosa faccia, mangi o dorma, la sua preghiera non deve conoscere
interruzione. Nessuna regola canonica per lui, nessun breviario imposto: egli
non ha che da ascoltare il suo cuore. Il cuore gli insegna a inserirsi nello
Spirito, docile alle sue sollecitazioni, modificando attività e occupazioni in
vista della vigilanza, continua, ancorato come vuol essere in una perenne
supplica e azione di grazie. L’eremita vive senza obblighi: egli può fare di
tutto, in tutto cerca il suo compiacimento, che è il compiacimento dello
Spirito di Dio in lui.
Tutto il
contrario, invece, per il cenobita: questi non fa nulla che non sia previsto!
Una regola e un superiore determinano tutti i suoi atti, fino alla preghiera:
prega a ore fisse, seguendo uno schema ben preciso, secondo una misura da non
infrangere. Egli vi si deve attenere “sette volte al giorno”, anche la notte,
all’ora indicata. Segue un calendario, e i suoi tempi di preghiera si piegano
alle stagioni: questo lo mette in contatto con la creazione intera, con la
chiesa universale, perché ovunque questi momenti si ritmano sul sole e la luna.
In tal modo i cenobiti rivivono tutta la storia della salvezza (dall’Avvento
alla Pentecoste, e fino alla Parusia), di anno in anno.
In ciascuno di
noi abitano un eremita e un cenobita. Di più, in ogni cenobita vive un eremita
e in ogni eremita batte un cuore di cenobita. L’uno e l’altro ci dicono
qualcosa di essenziale sulla preghiera.
1. L’eremita ci insegna a pregare
incessantemente. In definitiva la preghiera sgorga ininterrottamente. Gesù,
Paolo, Luca, tutti ce lo imprimono nel cuore: “Pregate senza stancarvi,
costantemente, senza interruzione” (cf. Lc 18,1; 21,36; At 10,2; 1 Ts 5,17).
Non si può sapere cosa sia la preghiera se essa si arresta in noi. La preghiera
continua va di pari passo con l’azione dello Spirito santo in noi, come dice in
maniera incomparabile Paolo in Rm 8,26, e come dice anche Isacco il Siro:
Chi porta
in sé lo Spirito di Dio e gli offre ospitalità nel proprio cuore e nel proprio
spirito diviene tempio dello Spirito santo. Mangi, dorma o vegli, la preghiera
gli aderisce all’anima. I semplici movimenti del suo spirito purificato sono
altrettante voci silenziose che nel segreto fanno salire verso l’Invisibile la
loro salmodia.
2. Il cenobita, dal canto suo, ci insegna a
pregare giorno dopo giorno a ore fisse. È così che l’orante si integra nella
comunione universale, il popolo radunato dalla parola di Dio, l’unico corpo di
Cristo. Molte tradizioni ritengono che la forza di questa preghiera comunitaria
sia di gran lunga superiore a quella di ogni preghiera individuale. E questo è
in sintonia con un antico detto ebraico: “Dove prega la comunità, là si trova
la Shekinà” - cioè l’abitazione ,divina -, allo stesso modo in cui si
ritiene sia presente nel Santo dei Santi. Invece: “Chi si sottrae alla
preghiera comunitaria si sottrae alla Shekinà”. I monaci copti ci trasmettono
lo stesso insegnamento nel racconto di una visione:
C’era una
volta un monaco che vegliava pregando incessantemente ma non assisteva agli
uffici comunitari. Una notte gli apparve una colonna luminosa che si elevava
sino al cielo e brillava al di sopra del luogo dove erano riuniti i fratelli.
Vide anche un lumicino che tracciava dei cerchi attorno alla colonna; talora
fiammeggiava vividamente, poi si spegneva quasi del tutto. E poiché il monaco
era stupito da tale visione, ricevette da Dio la spiegazione: “La colonna che
vedi, sono le preghiere dei molti fratelli: esse si innalzano fino a Dio e il Signore
le gradisce. Il lumicino è la preghiera di coloro che vivono in comunità
sottraendosi agli uffici prescritti. Prendi dunque parte alla preghiera
comunitaria. Dopo, se lo vuoi e lo puoi, dirai la tua preghiera personale” (dal
Libro del Paradiso).
E noi a che
punto siamo?
Sono più
numerosi di quanto non pensiamo coloro che sanno cosa vuol dire la preghiera
continua. Mi ricordo di un giovane che conduceva una vita molto attiva:
infaticabile, vendeva vetture giapponesi a soldati americani in Germania…
Ebbene, un giorno disse queste parole: “Sai, Dio è sempre accanto a me, in
tutto ciò che faccio”. Certe infermiere piene di dedizione “sanno” come nel
loro andirivieni, attraverso tutto, non devono lasciare il loro cuore. Esse
vivono in Dio e di Dio, semplicemente. A tali persone può essere utile
ricordare il cammino del cenobita. Accettando di pregare in certi momenti
stabiliti dalla comunità dei credenti, esse scopriranno una nuova dimensione:
il legame vissuto con il corpo di Cristo in cui trova unità dinanzi a Dio,
giorno dopo giorno, tutto l’universo creato.
D’altra parte,
molta gente prega fedelmente a ore fisse. Certuni si alzano presto, quand’è
ancora notte, certi altri vegliano ancora un’ora alla sera, altri ancora riservano
un tempo per Dio nel cuore della giornata. A costoro può essere utile
presentare la via dell’eremita: “Cerca e scopri da te stesso che cosa vuol dire
per te pregare incessantemente. Penetra nello Spirito che abita in te, e che
dall’interno sostiene la “tua preghiera” .
Il beato
Epifanio, vescovo di Cipro, aveva in Palestina un monastero. Il suo abate un
giorno gli mandò a dire: “Grazie alle tue preghiere non abbiamo trascurato la
nostra regola, ma con zelo celebriamo l’ora prima, terza, sesta, nona, e
l’ufficio del lucernario” . Ma egli li rimproverò con queste parole:
“Evidentemente trascurate le altre ore del giorno astenendovi dalla preghiera.
Il vero monaco deve avere incessantemente nel cuore la preghiera e la salmodia”
(Epifanio 3, in Vita e detti I, pp. 184-185)[1].
I fratelli che
sono al lavoro veramente lontano e che non possono accorrere in oratorio
all’ora fissata - e se l’abate verifica che è realmente così - celebrino
l’opera di Dio là dove sono impegnati, piegando le ginocchia con divino tremore.
Analogamente, coloro che son mandati in viaggio non vadano oltre le ore
stabilite, ma le celebrino come possono e non trascurino di offrire la
prestazione del loro servizio (RB 50,1-4).
da: "Le tre colonne del mondo" di Benoit Standaert.
Nessun commento:
Posta un commento