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mercoledì 20 luglio 2011

Henri Le Saux. L'eremita cristiano dell'India

Saccidananda Ashram, Kulithalai: È stato il primo ashram cattolico moderno. Venne fondato il 21 marzo1950, sulle rive del fiume Kaveri vicino a Kiluthalai, da due monaci benedettini francesi: Jules Monchanin e Henri Le Saux. Quando accettarono lo stile dell’ashram indiano, entrambi cambiarono il loro nome: Swami Parama Arupianandam e Abhishiktananda. Essi vennero profondamente influenzati da Brahmabandhav e da Ramana Maharshi. Vestivano come monaci induisti e prendevano solo cibi vegetariani. Saccidananda Ashram è conosciuto anche come “Santivanam”. Colui che sarebbe poi divenuto Acarya Bede Griffiths (Swami Dayananda) affermava che lo scopo dell’ashram era di stabilire una forma di vita contemplativa basata sulle tradizioni del monachesimo cristiano e del sannyasa induista.

Henri Le Saux,
monaco cristiano acosmico
di Arrigo Chieregatti

Premessa

È inevitabile che di fronte all'«opera» di Henri Le Saux ognuno reagisca sull'onda delle proprie emozioni, come si fa di fronte ad un'opera d'arte. In un'opera d'arte ognuno legge quello che vive dentro di sé, perché tutti cerchiamo quello che abbiamo, e se non l'avessimo, non potremmo riconoscerlo. La stessa pagina ha un sapore diverso secondo il palato che uno possiede. La conoscenza del Cristo è per Henri Le Saux il passaggio fondamentale e insostituibile per andare nel mistero: «Per me il Cristo è il Sadguru, il Grande Maestro, ma questo non significa che lo debba essere per tutti». Poi così prosegue:

«Siamo troppo abituati a considerare il Cristo come possesso di una parte dell'umanità, cioè i cristiani, e che l'incontro con il maestro di Nazareth possa avvenire solo per la strada che noi abbiamo percorso. Abbiamo dimenticato che Gesù era un ebreo e che erano ebrei i suoi primi compagni; abbiamo dimenticato che la strada verso il Signore dalla cultura giudaica è passata a quella greca e poi a quella latina e quindi può passare attraverso altre culture, altri uomini e altre esperienze» (1).

Henri Le Saux, come tanti altri hanno fatto e ancora stanno facendo, da monaco benedettino ha lasciato la strada che aveva percorso ed è entrato in un mondo nuovo, rinunciando alla propria cultura, ai propri schemi, ai propri legami per avventurarsi, come nuovo Abramo, solo con l'essenziale in un ambiente sconosciuto, convinto che ovunque il Cristo è presente, e che con la fede il Signore è presente ovunque, e che «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34-35).

È vero, l'esperienza di Henri Le Saux è l'esperienza di un eremita, ma è proprio per questo che crediamo opportuno offrirla a tutti noi, cristiani d'Occidente, impegnati con tutto noi stessi nell'azione sociale e politica di liberazione dalle varie schiavitù religiose e civili, di cui forse neppure siamo coscienti.

In un mondo profondamente segnato dal materialismo, ormai gli aiuti esterni di supporto per la nostra fede non esistono più, per cui dobbiamo tutti costruirci una spiritualità eremitica, dobbiamo trovare all'interno di noi stessi la forza per la solidità della nostra fede. È dal profondo di noi che deve uscire il coraggio per la nostra adesione al Cristo, è «dall'intimo della caverna del nostro cuore che deve sgorgare una sorgente di acqua viva per la vita» (cfr. Gv 4,14).

In occasione della morte di Le Saux, avvenuta il 7 dicembre 1973, uno dei suoi più cari amici, il pastore protestante Murray Rogers ha scritto:

«Il nostro caro amico e guida Swami ha fatto l'esperienza del suo risveglio finale, si è risvegliato all'Essere, ha realizzato il suo Samadhi, è giunto alla concentrazione totale, al raccoglimento perfetto. Così facendo ha visto adempiuto il suo desiderio di molti anni: finalmente è diventato veramente a-cosmico, realizzando così in pienezza la vocazione che lo Spirito aveva deposto dentro di lui attraverso il sannyasa indù» (2).

E infatti lo stesso Le Saux, riferendosi al grave attacco cardiaco di alcuni mesi prima della morte, scriveva:

«Veramente una porta si è aperta nel cielo, mentre giacevo sul pavimento. Ma un cielo che non era l'opposto della terra: qualcosa che non era nè vita nè morte, ma semplicemente essere, risveglio, al di là di ogni mito o simbolo. Se ci incontreremo di nuovo, vi racconterò tutta quella meravigliosa storia, ma già da ora: Magnificate Dominum mecum. Nella gioia di Dio, sempre» (3).

Per non essere presuntuosi nel voler determinare un pensiero così vasto come quello di Henri Le Saux, forse può essere opportuno leggere insieme quello che Swami ci ha lasciato e che siamo riusciti a «rubare» alla sua esperienza spirituale.

Certamente io posso dire la mia esperienza di fronte alle altezze di un tale maestro, mentre altri potranno dire diversamente e forse esattamente il contrario. L'opera d'arte, come la mistica, non è possesso esclusivo di nessuno, ma tutti possono esprimere ciò che quella esperienza e quel suono ha suscitato in ognuno. Possiamo raccontare quello che abbiamo letto e quel poco che siamo riusciti a captare dalla viva voce di Henri Le Saux.

Non è certamente tutto quello che un uomo di Dio ha esperimentato, perché lo scritto e il racconto può trasmettere solo una minima parte di quello che ha vissuto. Ho voluto prendere come guida i suoi scritti, le sue lettere, e la lettera che un amico, Raimon Panikkar, nostro carissimo maestro, ha voluto indirizzargli dopo la sua morte.

Lasciar parlare un uomo di Dio, un maestro spirituale significa porsi in ascolto, lasciarsi penetrare dal suo spirito, non fare obiezioni, ma permettere che un fiume, come il Gange a Rishikesh, possa avvolgerci e rigenerarci.

Potremo così raccontare non quello che lui ha detto, ma quello che abbiamo ascoltato, non quello che ha scritto, ma quello che abbiamo letto.

L'avventura

Di fronte al messaggio di Henri Le Saux (o Abhishiktananda, secondo il nome assunto in India) si è spesso attenti a «cosa dice», cioè alle sue affermazioni che appaiono a volte dure e rigide, piuttosto che a «chi le dice». Taluni tra noi la chiamano obiettività, ma forse può essere mancanza di attenzione alla persona. Si può ridurre infatti la persona a nozioni e ad espressioni prive di vita in nome della scientificità e dell'ortodossia.

Dovremo forse imparare da Henri Le Saux che, nell'impatto con l'India, si è trovato scardinato dal suo monachesimo ossequiente e devoto, proiettato in una avventura che, come il Figlio dell'uomo, l'ha gettato su una strada dove... «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Si è discusso e si continua a discutere se era giusto o meno, ma seguendo la cultura asiatica potremmo rispondere: «Andate a vivere come lui ha vissuto, e poi ne parleremo».

La perfezione anche spirituale viene ormai confusa con la mancanza di difetti, mentre più propriamente la perfezione è la capacità di convivere con i propri limiti e con i propri difetti. Le Saux era ben cosciente delle sue debolezze: era preoccupato della ortodossia, era puntiglioso nelle formulazioni corrette delle affermazioni dottrinali, ma l'esperienza concreta lo ha portato a scoprire immediatamente che la realtà è piena di limiti e di imperfezioni. E ha sentito ed esperimentato che non è sempre possibile mettere insieme la ortodossia mentale e la spontaneità del cuore.

Il nostro perfezionismo intellettuale ci impegna spesso a voler incapsulare lo Spirito nello spazio dell'intelletto, e per comprendere Le Saux è necessario sapere che egli ha voluto sottomettere il logos (parola, pensiero, ragione) allo Spirito (aria, soffio, respiro). È stato sempre diffidente riguardo alle idee e alle parole, mentre era completamente aperto allo Spirito, dovunque spirasse.

Questa tensione tra logos e spirito si concretizzerà tra Henri Le Saux e l'abbé Monchanin, e non solo riguardo al futuro escatologico, ma anche nella realtà concreta della conduzione dell'Ashram di Shantivanam. Non erano solamente tensioni psicologiche tra due personalità forti, ma forse lo scontro tra due polarità teologiche, che portarono a due scelte diverse:

- vivere in modo radicale alla maniera hindu, in cui l'esperienza è a fondamento di ogni insegnamento, come voleva Le Saux;

- oppure decidere secondo le esigenze della ragione, del logos appunto, come voleva Monchanin.

Essere e fare

Gli scritti di Henri Le Saux difficilmente potranno essere capiti da coloro che non sono passati attraverso la sua esperienza, e lui ha accettato umilmente di non essere capito. Tanti hanno pensato che ci fossero nei suoi scritti errori teologici, confusione di fede e di ragionamento, o che non fosse possibile concentrare in un pensiero logico le sue intuizioni. Ma i suoi scritti, ormai numerosissimi, evidentemente smentiscono questa opinione, e «chi vuol capire, capisca». Rileggendoli, invece, si può certamente intuire il lavoro di cesello per farsi capire e non essere frainteso. Il Diario spirituale (4), che non è stato scritto per essere pubblicato, avrebbe bisogno di essere rivisto non già da noi ma da lui.

Si può capire la dimensione spirituale non nella dimensione del «fare e del produrre», ma in quella dell'«essere», e nella dimensione dell'essere non c’è bisogno di essere consapevoli, proprio come un neonato che esiste anche se non ne ha consapevolezza intellettuale, e l'esistere è certamente fondamentale rispetto alla coscienza. L'essere può esistere solamente «essendo», e per questo Abhishiktananda ha chiesto a se stesso di «andare oltre» il mentale: lui è andato oltre non con le parole ma con la stessa sua vita.

Henri Le Saux ha chiamato «preghiera» l'Essere dal punto di vista di Dio: «Tu, o Padre, preghi creando e mantenendo il creato in essere», mentre la sua vita è stata la convalida del suo pensiero; per lui infatti non esiste la distinzione tra documenti teologici e affermazioni spirituali isolate. Per tutti è così, ma per lui in modo particolare: la maggior parte delle sue espressioni sono grida, preghiere, urla che esprimono i suoi sentimenti.

In questo cammino sono da sottolineare i radicali cambiamenti di Henri Le Saux:

«L'insegnamento delle Upanishad non è questione di formulazioni intellettuali, che possono essere insegnate e ricevute. Esse hanno solo la funzione di portare all'esperienza» (1956).

E nel 1972, solamente un anno prima della sua morte:

«Il cristianesimo è soprattutto Upanishad, correlazione, insegnamento non diretto. L'insegnamento diretto è solo "fenomeno". La correlazione fa uscire la scintilla direttamente dall'esperienza, e questa mette la relazione in modo perfetto».

«Il mistero interiore chiama in modo lacerante: nessuno da fuori può aiutarmi a penetrare il mistero e scoprire al mio posto il segreto della mia origine e del mio destino» (1956).

«C'è sempre il rischio di scambiare i surrogati dell'esperienza con l'esperienza stessa: la strada della solitudine e dell'unità è terribile nella sua nudità. Non si può prendere l'idea della solitudine per solitudine stessa» (1956).

Il cammino spirituale di Henri Le Saux è stato l'incontro con il Nulla, ne ha toccato l'aspetto negativo, senza vederne la grandezza. È stato il vero incontro con il Nulla del proprio profondo. Troppo spesso l'incontro con il Nulla è solo superficiale. Molti, contenti della propria conoscenza, anche della propria conoscenza religiosa, colpiti dal luccichio dell'Oriente, bevono qualsiasi cosa esotica e pensano d'aver raggiunto l'esperienza suprema, quando invece hanno toccato solamente i limiti delle proprie facoltà spirituali. Raggiungere le frontiere dell'essere è fondamentale per un cammino spirituale, ma questo non è ancora l'incontro con il profondo. Fare questa esperienza significa entrare in una via senza ritorno, e non è come fare un po' di yoga, un po' di meditazione, o impegnarsi in una recita di mantra.

Sin dai primi anni della sua presenza in India H. Le Saux era preoccupato dell'impatto della cultura occidentale con l'Oriente, ne vedeva i rischi e le deformazioni. Negli anni dei «pellegrinaggi» in India dei giovani occidentali scrisse queste riflessioni che indicavano il suo amore per l'Oriente e per l'India, ma anche sottolineavano la superficialità con cui poteva essere avvicinata la spiritualità indiana da coloro che, scontenti dell'Occidente, non erano sufficientemente preparati a recepirne il valore e a confrontarsi con la fatica di una spiritualità totalmente diversa da quella a cui erano abituati:

«Lo yoga è molto in voga ai nostri giorni, soprattutto in Occidente, dove forse se ne discute di più che nella stessa India. Forse questa divulgazione può far perdere di vista il vero senso dello yoga. Lo yoga è soprattutto una tecnica per riportare e fissare lo spirito nel suo centro. Lo scopo dello yoga è fondamentalmente di ricondurre lo spirituale alla nuda coscienza della propria esistenza, al di là di tutte le manifestazioni di ordine fenomenico percettibile dai sensi e dal pensiero. Solamente in questo centro o in questa sommità l'uomo raggiunge se stesso e si realizza nella verità del proprio essere, o, più esattamente forse, del proprio atto di esistere» (5).

Si tratta di raggiungere ciò che l'India chiama lo stato del kevala, cioè dell'isolamento, in cui uno pone se stesso in rapporto a tutto ciò che non è suo in maniera essenziale e permanente, in rapporto a tutto ciò che in lui è solo relativo e passeggero, cioè le vritti, che sono le complicazioni del proprio pensiero e le trasformazioni del proprio egoismo.

Per questa via lo yoga può credersi assoluto e può ritenere d'aver realizzato la perfetta libertà e la totale indipendenza della propria persona. Da questo punto centrale del proprio essere tenterà di dominare e controllare, senza che niente gli possa sfuggire, tutte le manifestazioni psicologiche e anche fisiologiche della propria vita.

Il mezzo per eccellenza per arrivare a questo stato è il controllo progressivo e sempre più stretto dell'attività mentale e, al limite, il suo arresto totale. Proprio in questo arresto la coscienza che si ha di se stessi si può illuminare di una luce non confusa, che da sola può riempire il campo intero della percezione.

Per rendere possibile questo dominio del flusso mentale sono stati progettati ed esperimentati, attraverso una lunga pratica, diversi esercizi. Il più importante è quello della meditazione, che concentra lo spirito su un punto preciso, immaginario o mentale non importa.

Non si tratta della meditazione nel senso occidentale del termine, di immaginare cioè una scena o di contemplarne successivamente le differenti parti, oppure di riflettere su una idea e di esaminarne i diversi aspetti. La meditazione yogica tenta di ridurre ad un punto indivisibile il campo della coscienza, di realizzare l'unità dell'attenzione, di vincere la dispersione e di costringere lo spirito al silenzio.

Le posizioni del corpo (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) hanno valore puramente preparatorio e sono tutti finalizzati a fissare lo psichico. Il loro scopo primo è quello di permettere allo yoga di controllare, di ritmare e, se possibile, di immobilizzare i suoi muscoli, soprattutto quelli che comandano i movimenti della respirazione e anche dei battiti cardiaci.

Tutto ciò dipende dalla connessione tra lo psichismo dell'uomo e il suo organismo fisiologico, e ancor più, dice la tradizione, tra il soffio vitale (prana) e il principio interiore della vita.

Essendo lo yoga una tecnica, succede ciò che capita a tutte le tecniche, sia di ordine fisico sia di ordine psicologico, sociale, o religioso, e non può succedere altrimenti. La tecnica attira sempre più l'attenzione e gli strumenti rischiano di essere valorizzati per se stessi, a scapito dello scopo primario da raggiungere. Per questo i pericoli dello yoga, soprattutto per gli occidentali, non devono essere minimizzati.

Uno dei rischi più gravi è di costituire al fondo della coscienza dello yoga una specie di super-io, ritenuto tanto potente da essere capace di controllare e dominare i movimenti muscolari, la coscienza fenomenica, e persino il pensiero.

Questo super-io sarebbe in definitiva un'esaltazione dell'io, anzi una proliferazione cancerosa dell'io, dell'ahamkara (coscienza empirica di sè), e può divenire un punto della coscienza smisuratamente ingrandito rispetto al resto.

Questa è la sorgente dell'orgoglio demoniaco di certi yogi, soprattutto in Occidente. Andando al fondo di se stessi s'impegnano nello sforzo di passare, dicono, dall'io al Sé. Ma quello a cui tendono e che chiamano il Sé, non è altro che la proiezione del proprio pensiero, il fine che hanno concettualizzato e che si sforzano di raggiungere.

Non giungono alla perdita di sé nel Sé supremo, come essi pensano, ma in conseguenza dell'atteggiamento moralistico che riempie tutta la loro ascetica, gonfiano in maniera mostruosa e promuovono al rango di assoluto il loro proprio io, con tutti i suoi particolarismi e i suoi limiti. Questo permette loro di ritenere possibile tutto ciò che pensano senza limiti o regole.

L'impegno verso l'India

L'impegno verso il Vuoto, che anche san Giovanni della Croce invita a raggiungere e chiama Nada, nada, ha avuto per Henri Le Saux una strada molto concreta.

Innanzitutto il suo non-ritorno in Occidente. Era stato più volte invitato a tornare ed egli stesso aveva pensato che sarebbe stato utile vedere l'Occidente dopo la sua esperienza indiana, e vedere anche l'India da lontano. Invece, rifiutò in modo categorico, perché a suo parere sarebbe stato un tradimento rispetto alla sua chiamata, avvertita come un cammino senza ritorno, quasi una immersione da cui non era possibile tornare, pena la perdita di una parte di se stesso. Non voleva sentire la sua missione come temporanea, rischiando di non essere né da una parte né dall'altra, condannando l'Oriente a causa delle fatiche sopportate ed esaltando l'Occidente più confacente alle sue abitudini, o viceversa. Rifiutava di essere considerato un santo (o un santone) che andava in giro per il mondo a salvare i perduti, o a sollevare i sofferenti.

Tanti amici non erano d'accordo con lui, a nome di tutti Raimon Panikkar, amico e compagno di ricerca, che, pur avendolo inizialmente contrastato, poi lo ringraziò e gli disse: «Grazie, swami, avevi ragione e pertanto ti benediciamo».

Non nascose la sua irritazione, e fu alta, quando alcuni amici rifiutarono l'esperienza indiana e decisero di tornare in Europa. Questo fu a suo parere un tradimento. La sua scelta era per lui l'unica possibile: solo la morte poteva toglierlo dall'India, e non sarebbe stato possibile nessun compromesso.

Ancor più si irritò quando alcuni monaci occidentali che vivevano in India decisero di incontrarsi e discutere la loro vita: «Non si arriverà ad una riforma con chiacchiere o con dibattiti. Antonio andò nel deserto, e così anche Benedetto, Francesco si mise sulle strade senza bisogno di convegni e di congressi di monaci».

Nel cuore di Henri Le Saux sono convissute due strade sin dall'inizio: la via cristiana e la via hindu (1949) e solamente nell'esperienza dell'attacco di cuore (10-18 luglio 1973) raggiunsero un'armonia, solamente alcuni mesi prima di morire. Sentiva forte il richiamo dell'abisso, era dentro il suo cuore la promessa della non-dualità che avrebbe un giorno dato la grande risposta, quella che elimina sia la domanda sia colui che la pone: se uno non rinuncia a tutto quello che possiede e anche a se stesso e alla propria vita, non può entrare nel Regno dei cieli.

E con questa fatica ha lasciato libero se stesso e contemporaneamente dava indicazioni ad altri. A chi temeva su questa strada di perdere la fede, rispondeva:

«Non aver mai paura di perdere la fede, perché vorrebbe dire che Dio perde te, e questo non avverrà mai. Per cui, se perdi la fede, significa che non era vera fede, e allora valeva la pena di perderla» (Lettera 1970).

Poi giunse al totale abbandono al Signore e al suo Amore:

«il cielo esiste per chi lo desidera, e l'inferno esiste per chi lo teme» (1954).

L'espressione del Salmo della Bibbia ebraica è un richiamo per tutti: «L'abisso chiama l'abisso» (Sai 42,8), e per Henri Le Saux è il richiamo ad una unione profonda tra tante esperienze. Questa unione non è il risultato di un approfondimento tecnico, sociologico, filosofico, e neppure teologico, ma di un abbraccio mistico nel fondo dell'abisso. Per lui non era in gioco la soluzione di un conflitto dialettico, ma la sua stessa esistenza:

«Ho paura di perdermi lungo il sentiero verso l'eternità» (1953).

«Ho paura, ho l'angoscia di rischiare solo per un miraggio... ma tu, o Arunachala [la montagna sacra al Sud dell'India, in Tamil Nadu], non sei un miraggio» (1956).

Henri Le Saux e la sua poesia

La poesia è l'arte di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie esperienze al di là del pensiero. Non contro il pensiero ma oltre la mente, cioè in un cambiamento di prospettiva e anche di strumenti adeguati per raggiungerla. Solamente a quel livello è possibile sentire il pensiero di Abhishiktananda (il «consacrato per la gioia»). Mentre esprime l'entusiasmo di essere colpito dal sacro monte Arunachala, professa il suo amore appassionato per il Cristo (1956).

Era entrato nella notte oscura, e solamente dopo anni di buio poté vivere nella propria carne l'esperienza della non-divisione. Scoprì in quel momento che doveva rompere con abitudini mentali e spirituali accumulate lungo i secoli, che gravavano sulla sua vita. E dovette farsi violenza.

Henri Le Saux ha vissuto l'esperienza del non-duale partendo dall'esterno del contesto indiano, con un altro tipo di materiale, con un'altra consapevolezza, con un'altra veste umana, quella dell'Occidente.

Non ha avuto paura di perdere quello che aveva acquisito, perché era essenziale, e l'essenziale non si perde mai, perché è nascosto nella caverna del cuore, nel profondo in cui nessuno può nulla rubare e che nessuno può violare.

Sembrava una sua debolezza, sembrava l'espressione di una sua superficialità, e invece era una ricchezza. Era il risultato del suo viaggio verso il profondo, verso il pozzo da cui può scaturire la fonte di acqua viva.

Per fare questo, ha dovuto abbandonare tutti i suoi «mariti», ha dovuto bruciare tutte le aderenze del suo essere occidentale, senza però rifiutare la sua appartenenza all'Occidente. Non si tratta di unificare, ma di avvicinare perché la vicinanza amorosa possa essere l'occasione di una mutua fecondazione e questo significa scoprirsi amanti e amati. Per essere capaci di un reciproco amore, per potersi reciprocamente fecondare, è necessario che ognuno rimanga se stesso:

«Non si tratta di fare sintesi, ma di andare aldila', di superarsi, ma permettendo ad ognuno di rimanere se stesso» (1956).

«Andare oltre» non significa negare il punto di partenza, ma anzi conservarlo e andare al profondo di esso. Meta-fisica non è la negazione della fisica, né un'altra fisica, ma andare al suo perché, al profondo nascosto della fisica. Così anche meta-noia non significa negare la mente o il pensiero né elaborare un altro pensiero, ma andare al perché del pensiero stesso, al profondo di esso. Questo è la spiegazione dell'andare oltre di Henri Le Saux e di molti mistici. È stato un cammino faticoso, ed esigente: ha seguito le pratiche cultuali cristiane in modo scrupoloso, e ad un certo momento le ha sorpassate, non per negarle, ma per andare in una dimensione che le comprende senza condannarle o rifiutarle.

«L'Eucaristia non è per me una forma di culto, ma mette a mia disposizione l'Incarnazione totale» (1952).

«Il Cristo è l'espressione cosmica e sociale di ciò che ciascun uomo porta dentro di sé» (1956).

«L'Incarnazione è certamente un mito (cioè il misterioso atto in cui ognuno può essere coinvolto e che può comprendere nella misura in cui accetta di essere immerso). È il Sacramento supremo, si può dire di magia, nel quale l'uomo raggiunge la profondità di se stesso» (1956).

Fu angosciante per lui andare oltre, avere la sensazione di perdere tutto ed è per questo che è giunto a formulare la sua dichiarazione di fede:

«Esistono due volti del Cristo: storico e meta-storico (mistico). I cristiani celebrano il volto storico, l'India e tutte le religioni cosmiche quello meta-storico. Sono necessarie ambedue, perché sia completa la conoscenza del Cristo. Non sono in opposizione, ma si completano e la nudità (Kevala) non divisa è la pienezza del culto cristiano» (1956).

«Certamente il cristianesimo sente di ribellarsi e dire che l'advaita (uno e molteplice insieme) non possono coesistere. L'advaita farà esplodere la chiesa istituzionale vaticana. È necessario che io rimanga in questa angoscia, quella che non mi permette la serenità di una sintesi... Non è possibile bere contemporaneamente da due coppe e questo è il prezzo della pace e della gioia» (1956).

«Finché è presente il desiderio di lasciare la Chiesa, non è ancor giunto il momento di farlo» (1956).

Un uomo libero: un monaco

Era ben presente in Henri Le Saux la concezione orientale di libertà e continuamente la descrive. Non è una libertà morale, né una libertà psicologica o di scelta: libertà è il raggiungimento, da parte di ogni essere, del profondo di se stesso, è l'adeguamento al motivo profondo del proprio esistere (Dharma). La purezza è la solitudine perfetta, cioè il silenzio che si raggiunge nell'incontro tra essenza ed esistenza. Solamente allora si può agire in modo naturale e spontaneo, cioè in perfetta libertà.

Si può accettare come commento a questo pensiero di libertà la frase di san Tommaso d'Aquino: «L'uomo libero è colui che opera non per un comando, ma perché vuole compiere il suo desiderio. Colui che opera per un comando, è uno schiavo, non è un uomo libero» (Commento alla prima lettera ai Corinzi).

È questa la libertà che discende dalla consapevolezza di avere qualcuno al di sopra di noi che condivide l'esperienza di vita, di avere Dio come Padre; e così non cadono sopra di noi tutte le responsabilità individuali, né tanto meno quelle dell'intera umanità: Dio, l'umanità, il creato non sono concorrenti, ma partners di vita di ognuno di noi:

«Finché posso chiamare qualcuno fratello qui sulla terra, ho anche il diritto di chiamare Padre il profondo estremo della guba [grotta] del mio esistere» (1972).

«L'esperienza cristiana è l'esperienza advaitica, vissuta nella comunità umana» (8 marzo 1972).

Per questo ritenne di non doversi impegnare più di tanto in ambito sociale e politico, non ne era interessato, come non accettò di soccombere ad alcuna tentazione teologica o filosofica.

La sua libertà si è espressa anche nelle lotte che evidentemente ha dovuto sostenere e affrontare sia dentro che fuori l'ambito della Chiesa. Anche le sue lotte, di qualsiasi tipo, non sono mai stata vissute sul piano mentale, non sono mai state interessate ad alcun conflitto intellettuale: «Voglio vivere il Vangelo senza teologizzare» (8 marzo 1972).

E quando qualcuno gli ribatteva: «Ma anche questo è filosofare», allargando le braccia diceva in francese: «Que je dois repondre?» («Cosa devo dire?»). «Non ho paura di andare di là dei colpi di mannaia del Denzinger [la raccolta delle definizioni e dei dogmi della dottrina cattolica; ndr.], perché non dobbiamo essere troppo legati alle apparenze».

La sua libertà è sempre stata di tipo monastico. La sua esperienza monastica, però, era dettata dalla conquista di una libertà vissuta a tutto campo. La libertà monastica come lui desiderava viverla l'ha ben descritta nel libretto che è quasi una cronaca del suo viaggio verso le fonti: Una Messa alle sorgenti del Gange (6).

Le Saux tende ad un monachesimo acosmico, che in un certo senso può trovarsi in conflitto con l'esperienza cristiana, che è fondata sulla Incarnazione. Il monaco acosmico rinuncia ad ogni supporto; la sua esperienza va oltre il «non avere un sasso dove appoggiare il capo». Il suo monachesimo aspira a trascendere la situazione umana, tende alla divinizzazione, come il cristianesimo, ma anche alla illuminazione proposta dal buddhismo e al nirvana proposto dall'induismo.

Certamente Le Saux non si è mai occupato molto della dimensione umana, non ha mai proposto un intervento in vista di cambiamenti qui sulla terra, ma metteva l'attenzione «oltre», superando ogni limite e ogni incertezza. Non è riuscito a realizzare il suo ideale; i limiti umani del suo carattere e delle sue forze fisiche per la concretizzazione dei suoi sogni sono evidenti. Spesso non ha saputo accettare i suoi limiti, non erano dentro la sua dimensione di vita, non erano nel cammino che si era proposto. I limiti, nella concezione monastica che si era costruito, non erano stati presi in considerazione, ed era infelice di doverli invece riscontrare.

«Andare di là di tutto» era la sua lotta tra l'uomo vecchio e l'uomo nuovo, tra l'ahamkara e l'aham:

«Avevo sentito sulla Arunachala la gioia della pace, che poi era scomparsa nel momento in cui mi ero scoperto cristiano, nella scoperta dei limiti della storia (Chiesa, Vaticano, organizzazione, rubriche...)» (26 agosto 1955).

La tensione più importante di Abhishiktananda era quella di poter raggiungere l'Assoluto con l'abbandono totale del relativo, l'annullamento di tutto ciò che uno è e può essere, forse l'abbandono della sua condizione di creatura:

«Colui che possiede diversi linguaggi religiosi, mentali o spirituali non importa, non potrà mai assolutizzare un qualsiasi concetto, ma potrà solo testimoniare un'esperienza, di cui però può parlare solo balbettando» (1973).

Per questi motivi si è rivolto all'India dove l'esperienza dell'Assoluto è stata sviluppata più fortemente che altrove. Il richiamo dell'India è giunto a Henri Le Saux perché era monaco e voleva essere monaco sino in fondo.

In Oriente l'unica strada spirituale comprensibile è quella monastica: non quella della carità, non quella dei riti, non quella della teologia, ma l'esperienza del profondo, incarnato nella vita concreta di un monaco.

Per essere testimone Swami non ha minimamente dubitato della necessità per lui di giungere alla completa spoliazione di ogni cosa, di ogni esperienza, anche quella religiosa, anche quella cristiana.

«Dovremo ringraziare l'ateismo moderno di tanti nostri fratelli, che ha smascherato tante false fedi che abbiamo contrabbandato come fede vera e unica» (Lettera 1970).

Abhishiktananda è stato un asceta, ma l'ascesi non è un nirvana più o meno pacifico, non è un paradiso in anteprima, bensì lotta, campo di battaglia. La sua lotta non è stata una lotta morale per la perfezione, né una lotta teologica per cercare la verità, ma una lotta dell'essere, una lotta dell'intera esistenza, una lotta per esistere.

È stata una lotta tremenda, che ha vissuto dentro di sé per tutta l'umanità, per noi occidentali, per noi cristiani, per noi monaci, per noi preti. Siamo tutti in debito verso di lui. La vita non può essere identificata con la coscienza che ne abbiamo e tanto meno con la riflessione intellettuale o spirituale che di essa facciamo. La domanda e la risposta riguardo alla vita si trova su un piano più profondo. Tutto questo ci permette di considerare l'esperienza di Henri Le Saux unica e certamente irripetibile. È sua la ricerca di combinare incarnazione e trascendenza, storia e acosmismo (tempo, spazio, materia, corporeità giungono ad essere evanescenti). Forse questo è stato il motivo per cui ciò che ha voluto concretizzare, si è di fatto annullato. Voleva fare un monastero, un ashram, avere discepoli... Ma niente si è realizzato.

Solo alla fine «un» discepolo, Marc, si è concretizzato, ma anch'egli ha impersonato l'ideale del monaco acosmico, sparendo totalmente dalla vita comune e distruggendo, a mio parere coerentemente, tanti documenti, come forse Swami gli aveva detto di fare. Già negli anni Sessanta, quando uno gli aveva chiesto di pubblicare note e riflessioni perché il suo messaggio potesse espandersi, Le Saux gli rispose:

«Attraverso lo Spirito è giunto a te il messaggio, e attraverso lo Spirito potrà giungere ad altri» (Lettera 1969).

Nell'anno stesso della sua morte (1973) Abhishiktananda rifiutò di partecipare alla Convention monastica asiatica a Bangalore e la stigmatizzò con commenti sarcastici, dichiarando che non era certo quello il luogo di un sannyasin (un monaco acosmico), perché i teologi cercano ciò che è da completare, mentre la perfezione è il vuoto, anzi il vuoto totale (7).

Ha praticamente sconfessato tutto: non si è rivolto al proprio sé, ma, al contrario, ha rivolto il proprio sé all'Assoluto, all'Unico, e praticamente tutto gli si è rivoltato contro, anche la sua stessa partenza per l'India:

«Ero venuto per farti conoscere ai miei fratelli hindu. E invece sei stato Tu che ti sei rivelato a me attraverso la loro mediazione, sotto l'aspetto inquietante di Aruna (aurora) Achala (immobile)» (8).

Henri Le Saux giunse in India come monaco, ma trovò in India l'ideale del monaco.

È bene notare che non lui, ma gli altri hanno scoperto l'esperienza acosmica del «sadhu cristiano», ed esattamente un compagno di ricerca di Henri Le Saux, Harilal (Sri Hari Wench Lal Poonja; vedi sopra pp. 22-26), durante un incontro che sembra toccare l'al-di-là, ha scoperto l'esperienza del monaco silenzioso. Lo stesso Abhishiktananda lo racconta:

«La prima volta che incontrai Harilal fu nella grotta di Arutpal Tirtham, un venerdì 13 marzo. Erano circa le quattro del pomeriggio. Ero seduto sul mio sedile di roccia fuori dalla grotta, quando vidi due uomini che venivano verso di me lungo lo stretto passaggio che stava tra la mia grotta e la casetta di Lakshmi Devi. Si presentarono e si sedettero accanto a me...» (9).

Chi è il monaco?

È opportuno forse non fare confronti e tanto meno graduatorie tra monachesimo cristiano (vedi Regola di san Benedetto) e monachesimo hindu.

La Regola di san Benedetto inizia con la caricatura del monaco girovago, e poi delinea la figura del monaco come uomo perfetto, realizzato, che ha raggiunto la pace, la dolcezza e la libertà. E' l'incarnazione dell'humanum, che si trova anche nella proposta cinese del saggio: il gentiluomo, l'uomo superiore, il nobile... e questo modello viene poi trasferito al prete e quindi all'ideale cristiano per ogni uomo e ogni donna che vuole essere discepolo di Gesù: è la proposta della via media tra angelismo e umanesimo.

In India la proposta monastica è anch'essa una via verso la perfezione, ma non nel compimento della virtù, ma nel raggiungimento del vuoto, possibilmente totale. È proposto il superamento e la trascendenza della condizione umana. Il monaco è colui che non è più di questo mondo, ma vive già altrove. È l'indifferente, perché ha già superato la dualità: «Non desidera vivere, non desidera morire. Attende che avvenga il suo tempo» (Mundaka Upanishad I, 2-12; Brhadharanyaka Upanishad III, 5).

E c'è un altro modello: il monaco ribelle, cioè il folle, il non conformista, colui che infrange le regole e aspira alla totale libertà.

Il monaco è colui che i benpensanti chiamano pazzo, ed è una follia vera, non finta, ed egli sa di esserlo e lo vuole. È colui che scende in piazza e gesticola, insulta, maledice, denuncia la follia della ragione, l'ipocrisia dei grandi, dei potenti, dei ricchi, dei forti e porta scompiglio nei giochi degli uomini importanti (vedi san Francesco, Gesù di Nazareth. Geremia, Buddha, i sufi dell'Islam..., e in genere tutti i profeti di ogni religione e di ogni cultura). San Paolo stesso parla della pazzia della croce, perché in essa sono state spezzate tutte le convenzioni.

Il monaco è colui che ha liberato la propria anima, anzi è colui che non ha più anima. Il monaco della tradizione hindu è colui che ha abbandonato tutti i riti, e nel mondo hindu la caduta di tutti i riti significa che il mondo crolla, e il monaco lascia che il mondo crolli: «Se un giorno non si potrà celebrare l'offerta del fuoco, come ogni giorno si celebra sul Gange a Rishikesh, il giorno dopo non sorgerà più il sole» (10).

Il rito è essenziale per la vita dell'universo, ma il monaco se ne ride. Ed è questa una delle tragedie del monachesimo hindu: la necessità dell'acosmismo e la sua effettiva impossibilità.

Il sannyasin (monaco hindu) è colui che si lascia cadere, che rinuncia a se stesso, e lascia cadere anche il mondo, perché... ha scoperto qualcosa di più, la verità delle verità, chiamata Nulla, o Vuoto, Nada, come dicono tutti i mistici. Il Vangelo esprime tutto questo in una parabola: «Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo: un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).

Il tesoro non è il risultato della vendita dei suoi averi, ma qualcosa che scopre quasi per caso, e la rinuncia non è un sacrificio, ma un motivo di gioia e di nuova vita, poiché scopre che quello a cui rinuncia è ben più piccolo di quello che acquista.

Il sannyasin è l'uomo dai lunghi capelli, il muni, cioè il silenzioso, che chiede senza parlare. Un giorno ne abbiamo incontrato uno a Tiruvannamalai, davanti al tempio, dove centinaia di poveri chiedevano l'elemosina, e lui (il monaco dai lunghicapelli) chiedeva solo con gli occhi, senza parlare, senza alzare la mano, ed era comprensibile solo da coloro che avevano capito il silenzio e affinato gli strumenti di relazione senza l'uso della parola.

Tutto questo è il simbolo del paradigma monacale, che ci descrive forse a verità della vita e della ricerca di Swami Abhishiktananada. In un inno dei Veda forse troviamo la descrizione del suo sogno:

«In lui c' è il fuoco, in lui l'acqua;
la terra e il cielo sono in lui.
Egli è il sole che il mondo intero contempla,
la luce stessa, l'asceta dai lunghi capelli.

Cinti di vento, fango d'ocra è il loro vestito.
da quando gli dèi sono in loro penetrati
vanno seguendo le ali del vento
gli asceti del silenzio.

Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,
i venti abbiamo soggiogato come destrieri.
E voi, comuni mortali, quaggiù,
non potete vedere oltre i nostri corpi.

Fra cielo e terra, librandosi nell'aria,
dall'alto egli mira la forma di ogni cosa
Si è fatto, l'asceta silenzioso,
amico e collaboratore di tutti gli dèi.

Cavalca i venti, compagno del loro soffio
dagli dèi inspirato.
Sta nei due mari
a Oriente e a Occidente, il silenzioso asceta.

L'orma segue di tutti gli spiriti,
delle ninfe e degli animali della foresta.
I pensieri loro conosce e, con l'estasi innalzato,
ne diviene dolce amico, l'asceta dai lunghi capelli.

Il vento ha preparato e mescolato per lui
una bevanda spremuta da Kunamnama (energia degli dèi)
Con Rundra (dea della morte) ha bevuto alla coppa del veleno,
l'asceta dal lunghi capelli».

In questo modello, ben chiaro e ben presente ancor oggi in India (come anche tra gli aborigeni dell'Australia, dell'America latina e in molte culture africane) è da collocare il posto di Henri Le Saux, ricercatore dell'Assoluto. A questo modello si collegano molte pratiche sciamaniche, come anche l'uso delle droghe di tanti asceti orientali. «Chi ne abusa, tradisce le piante sacre», diceva Aurobindo in un opuscolo, L’abuso delle droghe chimiche per una esperienza spirituale, tradotto anche in italiano dall'ashram di Pondicherry: «Chi usa le droghe chimiche per giungere alla esperienza spirituale, non farà esperienza spirituale e tradirà il motivo per cui il Creatore le ha messe nel mondo».

Di fronte a queste esperienze noi rischiamo di peccare per un eccesso di razionalità, e non possiamo così comprendere coloro che hanno spezzato il legame con il razionale.

Conclusione

Non si tratta di demonizzare né tanto meno di annullare una delle proposte o uno dei modelli di monachesimo, ma di accettare che Le Saux sia una sfida cosciente alla cultura storica del nostro tempo. Occorre ricuperare l'entusiasmo di una perfezione umana staccata dal cielo e dalla terra. Dovunque esistano tempeste, tragedie e angosce, il monaco hindu non le nega, ma non ne fa una teoria per tutti, e la sua vita lancia una sfida senza speculare, senza razionalizzare, senza voler tutto spiegare. Ciò che egli nega è la storia, l'evoluzione, la razionalità come motivazione ultima delle cose.

Raimon Panikkar, grande amico e studioso di Henri Le Saux, avrebbe dovuto ricordarlo al mio posto qui a Camaldoli, ma nella sua lettera ad Abhisiktananda ha lasciato il commento a questa vita e a questa esperienza tanto ricca quanto problematica. In questo modo Raimon Panikkar conclude la sua lettera, descrivendo il monaco acosmico, il monaco in ricerca dell'Assoluto, tutti i sadhu dell'India e quindi anche il monaco Henri Le Saux:

«Egli ama, beve, danza, mette in pericolo la propria vita, è l'amico di tutto e di tutti; non si cura dei discorsi, non si mette a scrivere libri, non si difende. È il silenzioso, colui che non ha nulla da dire. Non vuole essere imitato da nessuno, perché lui stesso non ha modello.
È spontaneità pura, pura libertà. La sua vita non è camminare su una via. Per Lui il mondo è l'esplosione della libertà, che i mortali ragionevoli vogliono sottomettere e dirigere verso un punto omega, verso un Dio, verso un eschaton o una fine entropica.
Però questo monaco non è nemmeno l'anarchico che provoca rivoluzioni e distrugge gli altri. Al contrario, si fa collaboratore del divino: è sauktrya, fautore di bene (cfr. ergon agathon della scrittura cristiana); egli ha scoperto di vivere nella antariksa, la regione intermedia tra cielo e terra, il mondo mediatore da dove procede l'energia universale e che è il legame di tutta la realtà. Questa antariksa, che come dice l'Atharva Veda (1, 32), ci ricorda che “l'universo è ogni giorno fresco, come le correnti del mare”» (12).

In ultima istanza, è lui che beve la coppa del veleno, il calice della croce, e che perde la sua vita, forse. Ma nessun utilitarista, anche se si proclama «realista spirituale», potrà mai comprenderlo. E qui appare la differenza tra la cultura occidentale, soprattutto quella moderna, e la cultura indiana tradizionale, che gli apre uno spazio ben più vasto di quello accordato un tempo in Occidente al matto del villaggio. Il monaco si trova allora in una sorta di simbiosi soprattutto con il popolo, ma anche con i potenti, che vedono in lui ciò che loro stessi non sono stati in grado di realizzare. Forse l'inno dei Veda ha saputo riconoscere che vi è anche un monaco in ogni uomo, cioè un essere unico (monachos) e dunque incomparabile, irriducibile a qualunque schema? Non sarà forse che la cultura tecnocratica temporanea, invece, dietro una facciata di una democrazia egualitaria e di un ordine suscettibile di essere dettato dai computer (gli «ordinatori», quelli che classificano), vuole ridurci ad un comune denominatore, considerandoci semplici numeri? Non sarà piuttosto che questo archetipo monastico di cui stiamo parlando è il seme dell'unico «eroismo» che è ancora presente in ciascuno di noi? Qualunque sia la risposta che si dà a queste domande, è certo che la forza di questi monaci, di questi kesinah, di questi muni, di questi sannyasin, è una sfida costante e un esempio che continua ad ispirare «i pochi saggi che il mondo ha annoverato» (fra Luis de Leon). «La rinuncia ha oltrepassato gli ardori» (Mahanarayana Upanishad, 568).

Si può tracciare una sintesi, da una parte, tra i due modelli di monaco e, dall'altra, tra il paradigma monacale e la vita cosiddetta moderna? La forza della Bhagavad-Gita contiene, mi sembra, lo sforzo per giungere alla prima sintesi: essere in comunione con l'universo, avere coscienza di dover mantenere l'ordine cosmico, non restare attaccati ad alcunché e compiere la propria opera senza volerla giustificare attraverso i risultati.

Per quanto riguarda la seconda sintesi, quella che dovrebbe cioè realizzarsi tra la spiritualità tradizionale, che potremmo chiamare la «santa semplicità», e l'ideale moderno della «complessità armoniosa», essa si rivela essere il compito e la sfida della nostra epoca.

NOTE

1. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

2. MURRAY ROGERS, Testimonianza, riportata nell'opuscolo citato alla nota precedente.

3. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Lettera del settembre 1973 in Lettere e scritti, cit.

4. HENRI LE SAUX, Diario spirituale di un monaco cristiano-sannyasin-hindou 1948-1973, a cura di Raimon Panikkar, Mondadori, Milano 2002.

5. ABRISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

6. HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994.

7. Cfr. Diario spirituale..., Op. cit., pp. 255-263 (28 novembre 1956).

8. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, cit.

9. Il racconto dell'incontro si può leggere in HENRI LE SAUX, Ricordi di Arunachala, Messaggero, Padova 2004, pp. 197-208.

10. Cfr. RAIMON PANIKKAR, I Veda. Mantramanjari (Testi fondamentali della tradizione vedica), Rizzoli, Milano 2001.

11. Ivi, pp. 588-589.

12. RAIMON PANIKKAR, Lettera ad Abhishiktananda in HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994, p. 165.

(da Vita monastica, n. 231, pp.32-55)